sabato 4 gennaio 2014

Se non hai gustato non puoi annunciare…





Ciò che le nostre mani hanno toccato di don Tonino Bello

Il particolare è di una bellezza incredibile.

Nella vita di Francesco scritta da Tommaso da Gelano si legge che il santo, nella notte in cui a Greggio costruì il primo presepe, mentre cantava il Vangelo della messa di Natale essendo egli diacono, ogni volta che pronunciava il nome di Gesù «passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quella  parola».



Questa scena di Francesco che si lecca le labbra mi sembra una splendida simbologia che deve farci capire una cosa. Di Gesù non basta la conoscenza puramente intellettuale, accademica,  esprimibili con i concetti sia pure raffinati della teologia. Con lui occorre un contatto che scavalchi l’approccio teorizzante, e si traduca in relazioni che facciano perno sullo spessore dell’esperienza, non escludano la copiosità del sentimento, e utilizzino le innumerevoli altre strade di conoscenza che non siano necessariamente quelle delle idee chiare e disunte.



Di Gesù, insomma, non si solo teoria. Ma soprattutto «soterìa», che è una parola greca che significa salvezza. E visto che mi son messo a parlare difficile, voglio continuare caparbiamente citandovi una frase dei teologi medievali che affermavano: «caro  salutis cardo». Significa questo: che la carne, il corpo, la visibilità materiale insomma, è il cardine attorno a cui si articola la salvezza, anzi è il veicolo attraverso  cui l’opera  salvifica di Dio entra nelle  arterie   della  storia.

Se perciò di Gesù si «soterìa», cioè salvezza, e se è vero che la salvezza non può fare a meno della tangibilità della carne, e dello spessore del corpo, comprendere bene che l’aver fatto esperienza vitale di Gesù costituisce il passaggio obbligato per poter efficacemente parlare di lui.



Senza  questo  diploma  di laurea  conseguito  nelle  università  del deserto,  sui  banchi  della  preghiera,  nelle  strutture  del  coinvolgimento  esistenziale,  dopo diuturni  contatti  a  tu  per  tu  col  Maestro, dopo esami estenuanti  preparati  nel sacrificio,  e dopo infinite  esercitazioni di «riconoscimento»    del volto di lui nel volto dei fratelli.. perfino la laurea conseguita nelle accademie pontificie è incapace di   abilitare   al1’annuncio   del   Vangelo.

In altre parole: se prima non hai gustato la dolcezza del suo nome,  è inutile  che  ti  metti  a  predicarlo.



Se il buon profumo di Cristo non promana dalle tue mani che hanno stretto le sue, le parole che annunci sono prive di garanzie. Se non hai da esibire veli di Veronica attraverso i quali hai toccato il suo volto, le tue lezioni su di lui saranno sempre inaffidabili. Se Gesù non ha segnato le sue impronte digitali in qualche parte del tuo essere, è fatica sprecata tentare un identikit di lui inseguendo  astrazioni  di  riporto.



Se egli non ti ha lasciato scritto di suo pugno un promemoria sulla pagina dell’anima, o non ti ha messo almeno un autografo in calce alle tue righe, è vano spiegarlo agli altri seguendo gli appunti segnati  sulle  pagine  di  carta.



Per  dipingere  Cristo,  diceva  il  Beato  Angelico,  bisogna  vivere di lui. Ebbene, per dipingerlo sulla tela di una esistenza umana, soprattutto se  è la tela delicata di un fanciullo, bisogna intridere il pennello della parola nel vermiglio delle sue piaghe, nel verde dei suoi occhi, nel cavo del suo cuore, nell’acquaforte dei suoi gesti, nella tempera dei suoi sentimenti, nelle profondità dei suoi pensieri,  nelle  trasparenze   dei  suoi  sogni.



Prima di raccontarlo, Gesù, bisogna averlo toccato. Quello che le nostre mani hanno tostato del Verbo della Vita, noi lo annunziamo anche a noi. .. Chi parla è san Giovanni: il discepolo che ha toccato, non solo con le mani ma anche col capo, le carni immacolate del Verbo.

Toccato,   non  spinto.



Vi ricorderete certamente di quella donna malata che guarì dopo aver toccato il mantello di Gesù. Come mai di tanta gente, che pure si accalcava attorno al Maestro e che certamente si trovava in situazione di bisogno, solo lei ottenne la guarigione? A questa domanda sant'Agostino risponde con una splendida battuta, che,  e ancora una volta dovete perdonarmi vi cito in latino: «turba premit, illa tangit». Che significa: «la turba spinge; lei, invece, tocca».



Noi diciamo francamente che Gesù lo spintoniamo un po’ troppo, ma senza toccarlo.

Lo manipoliamo nei sacramenti, ignorandolo con le ritualità. Lo urtiamo con implorazioni da cerimoniale, comprimendolo nei frasari sa copione. Gli  strisciamo accanto con la ripetibilità delle sacre faccende e gli piantiamo i gomiti nei fianchi, violentando i poveri al cui interni egli si nasconde.



Ma non lo tocchiamo con l’emozione della carezza. Non lo sfioriamo con abbracciamenti di abbandono. E per questo che non potremo mai guarire da quella  malattia  che  si  chiama  «inattendibilità».

E allora, sapete che vi dico? Che un pezzo di quella frase tanto esecrata di Tommaso, ognuno la può prendere per buona applicandola a sé. Cambiandone, però, la conclusione.

Se non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mano nel suo costato…gli altri non crederanno!




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