Ciò che le nostre mani hanno toccato di don Tonino Bello
Il
particolare è di una bellezza
incredibile.
Nella vita di Francesco scritta
da Tommaso da Gelano si legge che il santo,
nella notte in cui a Greggio costruì
il primo presepe, mentre cantava
il Vangelo della
messa di Natale
essendo egli diacono,
ogni volta che pronunciava il nome di Gesù «passava
la lingua sulle labbra, quasi a gustare
e trattenere tutta la dolcezza
di quella parola».
Questa scena di Francesco
che si lecca le labbra mi sembra una splendida simbologia che deve farci capire una cosa. Di Gesù non basta la conoscenza puramente
intellettuale, accademica, esprimibili
con i concetti sia pure raffinati della teologia. Con lui occorre un contatto che scavalchi
l’approccio teorizzante, e si traduca
in relazioni che facciano perno sullo spessore
dell’esperienza, non escludano la copiosità del sentimento, e utilizzino le innumerevoli altre strade di conoscenza che non siano
necessariamente quelle delle idee chiare e disunte.
Di Gesù, insomma,
non si dà solo teoria. Ma soprattutto «soterìa», che è una parola
greca che significa
salvezza. E visto che mi son messo a parlare
difficile, voglio continuare caparbiamente citandovi una frase dei teologi medievali
che affermavano: «caro
salutis cardo». Significa
questo: che la carne, il corpo,
la visibilità materiale
insomma, è il cardine
attorno a cui si articola
la salvezza, anzi è il veicolo attraverso cui l’opera salvifica di Dio entra
nelle arterie della storia.
Se perciò di Gesù si dà «soterìa», cioè salvezza, e se è vero che la salvezza non può fare a meno della tangibilità della carne, e dello spessore
del corpo, comprendere bene che l’aver
fatto esperienza vitale di Gesù costituisce il passaggio obbligato per poter efficacemente parlare di lui.
Senza questo diploma di laurea conseguito nelle università
del deserto, sui banchi della preghiera,
nelle
strutture
del
coinvolgimento
esistenziale,
dopo diuturni contatti a tu per tu col Maestro, dopo esami estenuanti preparati nel sacrificio, e dopo infinite esercitazioni di «riconoscimento» del volto di lui nel volto dei fratelli.. perfino
la laurea conseguita nelle accademie pontificie è incapace di abilitare al1’annuncio del
Vangelo.
In
altre parole: se prima non hai gustato la dolcezza del suo nome,
è inutile che ti metti a predicarlo.
Se il buon profumo di Cristo non promana dalle tue mani che
hanno stretto le sue, le parole che annunci sono prive di garanzie. Se non hai da esibire veli di Veronica
attraverso i quali hai toccato
il suo volto, le tue lezioni su di lui saranno sempre
inaffidabili. Se Gesù non ha segnato
le sue impronte digitali in qualche parte del tuo essere, è fatica sprecata
tentare un identikit di lui inseguendo astrazioni di riporto.
Se
egli non ti ha lasciato
scritto di suo pugno un promemoria sulla pagina dell’anima, o non ti ha messo almeno un autografo in calce alle tue righe, è vano spiegarlo
agli altri seguendo
gli appunti segnati sulle pagine
di
carta.
Per dipingere Cristo, diceva
il
Beato
Angelico,
bisogna
vivere di lui. Ebbene, per dipingerlo sulla tela di una esistenza
umana, soprattutto se
è la tela delicata di un fanciullo, bisogna intridere il pennello della parola nel vermiglio delle sue piaghe,
nel verde dei suoi occhi, nel cavo del suo cuore, nell’acquaforte dei suoi gesti, nella tempera
dei suoi sentimenti, nelle profondità dei suoi pensieri, nelle trasparenze dei suoi sogni.
Prima di raccontarlo, Gesù, bisogna averlo
toccato. Quello che le nostre mani hanno tostato
del Verbo della Vita, noi lo annunziamo anche a noi. .. Chi parla è san Giovanni:
il discepolo che ha toccato,
non solo con le mani ma anche col capo,
le carni immacolate del Verbo.
Toccato, non spinto.
Vi ricorderete certamente di quella donna malata che guarì dopo aver toccato
il mantello di Gesù. Come mai di tanta gente,
che pure si accalcava attorno
al Maestro e che certamente si trovava in situazione di bisogno,
solo lei ottenne
la guarigione? A questa domanda
sant'Agostino risponde con una splendida
battuta, che, e ancora una volta dovete perdonarmi vi cito in latino: «turba premit, illa tangit». Che significa: «la turba spinge;
lei, invece, tocca».
Noi diciamo francamente che Gesù lo
spintoniamo un po’ troppo, ma senza toccarlo.
Lo manipoliamo nei sacramenti,
ignorandolo con le ritualità. Lo urtiamo con implorazioni da cerimoniale,
comprimendolo nei frasari sa copione. Gli
strisciamo accanto con la ripetibilità delle sacre faccende e gli
piantiamo i gomiti nei fianchi, violentando i poveri al cui interni egli si
nasconde.
Ma non lo tocchiamo con l’emozione
della carezza. Non lo sfioriamo con abbracciamenti di abbandono. E per questo che non potremo
mai guarire da quella malattia che si chiama
«inattendibilità».
E allora, sapete che vi dico? Che un pezzo di quella frase tanto esecrata di Tommaso, ognuno la può
prendere per buona applicandola a sé. Cambiandone, però, la conclusione.
Se non
metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mano nel suo costato…gli altri
non crederanno!
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