Tutti conosciamo la situazione politica che il mondo e non
solo l’Italia sta attraversando dal alcuni anni. Abbiamo urlato, pianto,
sofferto per tanti sbagli di chi governa, per la corsa sfrenata di molti al
potere, trascurando, anzi sfruttando sempre di più la parte debole della
popolazione.
Mi accingo a pubblicare tre lettere di Monsignor Tonino
Bello che molti di noi conoscono bene, lettere rivolte ai politici: chissà che
qualcuno di loro, visitando questo blog, non rifletta su quello che ha fatto e
che dovrà fare.
Invito a diffondere queste tre lettere.
Prima Lettera ai Politici: I Parte – Vivere con Sobrietà
Ambrogio Lorenzetti - particolare de "Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo" (1338-39)
Vivere con sobrietà, giustizia e pietà.
Mi sembra un forte articolato attorno a cui schematizzare la nostra revisione di vita.
Con Sobrietà.
Il termine “sobrietà” traduce una parola greca più complessa
e più ricca, che corrisponde a: saggezza, equilibrio, padronanza di sé,
moderazione, temperanza. Sobrio è colui che non è ebbro.
Sobrietà è l’opposto di ubriachezza.
Non è difficile, pertanto, intuire quale arcipelago di
atteggiamenti morali viene evocato quando, parlando a uomini immersi
nell’attività politica, li si esorta a vivere con sobrietà.
Non ubriacarsi di potere. Non esaltarsi per un successo. Non
montarsi il capo con i fumi della gloria. Guardarsi dal capogiro dei soldi e
della carriera. Coltivare religiosamente l’autocoscienza del limite.
Evitare la sbornia delle promesse. Mantenere l’equilibrio nel vortice delle
passioni.
Preservarsi dalle vertigini che può dare il potere
d’acquisto della propria parola, sul tavolo delle spartizioni e dei
compromessi.
C’è un passo biblico molto significativo, nel libro dei
Proverbi, che vieta espressamente il vino a coloro che stanno a capo di un
popolo: “Non conviene ai re bere il vino, né ai principi bramare bevande
inebrianti, per paura che, bevendo, dimentichino i loro decreti e tradiscano il
diritto di tutti gli afflitti” (Pr. 31,4).
Ovviamente, sotto la proibizione del vino materiale, si
vogliono mettere in guardia gli uomini di governo da tutto ciò che, come si
suol dire, può dare alla testa. Nessuno più di loro, infatti, è esposto alla
tentazione dei “fumi” e al conseguente pericolo di provocare, con ubriacature
morali, l’oblio delle leggi e il tradimento dei poveri.
Da queste considerazioni deve scattare per voi una sincera
revisione critica dei vostri comportamenti pubblici, che vi porti a ripudiare
ogni intemperanza di potere, ad aborrire dall’esercizio smodato dell’autorità,
a convincervi umilmente che anche senza di voi il mondo riesce a sopravvivere e
a ritrovare l’equilibrio nelle parole del Signore: “Quando avrete fatto
tutto quello che vi stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto
quanto dovevamo fare” (Lc.17,10).
Se, però, l’invito alla sobrietà richiama in causa il
comportamento dei singoli, non si esaurisce certo alla sfera personale, ma
tocca anche un processo degenerativo comunitario, in atto nel sistema politico
nazionale, che provoca riverberi funesti perfino nelle nostre città.
Ed è la partitocrazia, che potremmo chiamare l’ubriachezza
dei partiti.
I partiti, secondo la carta costituzionale, dovrebbero
essere i cosiddetti “corpi intermedi” la cui funzione è paragonabile a
quella che il fusto svolge nella pianta. Il nostro modello di stato sociale,
infatti, assomiglia proprio ad un albero le cui radici sono costituite dal
popolo e i cui rami sono dati dalle pubbliche istituzioni.
Il compito del fusto, cioè dei partiti, è quello di
raccogliere e coordinare le istanze vive della base per tradurle in domanda
politica organica che vada a innervarsi sui rami.
I cittadini, quindi, sia singolarmente presi, sia associati
in raggruppamenti primari detti “mondi vitali”, sono le radici del sistema in
quanto detengono la sovranità e delegano il potere ai loro rappresentanti
affinché lo esercitino nell’interesse del bene comune. I partiti, invece, hanno
il compito di incanalare le spinte sociali diverse organizzando il consenso
popolare attorno a una determinata politica.
La politica, perciò, secondo una splendida espressione dei
vescovi francesi, può essere definita “coagulante sociale”, in quanto stringe
forze diverse attorno ad un medesimo progetto.
È successo però, purtroppo, che il fusto è impazzito a danno
delle radici e dei rami.
I partiti, cioè, si sono ubriacati.
Verso il basso, hanno espropriato i cittadini e i “mondi
vitali” di alcune loro mansioni primarie, assorbendo per esempio
l’informazione, l’editoria, la cultura, lo spettacolo, e spesso condizionando
la vita di gruppi e associazioni.
Verso l’alto, hanno invaso quasi tutte le istituzioni dello
stato, non solo lottizzandosi gli enti pubblici esclusivamente secondo criteri
di appartenenza politica, ma anche mitizzando la disciplina di partito (se non
addirittura di corrente) a scapito della coscienza individuale e snervando
perfino la sovranità del Parlamento, sempre più ridotto a cassa di risonanza
per accordi presi fuori di esso.
Non è più lo stato sociale, ma lo stato dei partiti.
Le conseguenze di questo corto circuito sono drammatiche.
Da una parte i problemi ristagnano, i progetti parcheggiano,
gli intoppi burocratici si infittiscono, e perfino certe provvidenze di legge
si incagliano sui fondali della sclerosi amministrativa, si usurano negli
intrighi delle clientele, e naufragano nel gioco delle correnti.
Dall’altra parte cala la fiducia nella politica, visto che è
stata ridotta dalla partitocrazia non a “coagulante” ma a “dissolvente”
sociale. L’opinione pubblica accentua sempre più la tendenza ad angelicare la
società e a demonizzare lo stato.
I giovani, pur sentendo una vivissima vocazione alla
solidarietà, preferiscono riversare il loro impegno nel volontariato: questo
sta a dire che rifiutano ormai le semplici proposte di gestione e cercano
altrove i laboratori per la rigenerazione dell’humus etico della politica.
Si tirano indietro anche gli adulti, disgustati dallo
spettacolo dei partiti che, abusando di reciproche interdizioni per osceni
motivi di ingordigia nella spartizione delle pubbliche spoglie, producono,
anche nelle nostre amministrazioni locali, paurosi ristagni e incredibili
paralisi di governo.
Se è vero che l’impegno generoso e trasparente che si
esprime in un partito, per il bene comune, è una forma altissima di carità, il
fatto che le sezioni politiche si svuotino provoca nel vescovo una
preoccupazione non meno sofferta di quando vede disertata la sede di un gruppo
ecclesiale.
È urgente che i partiti, i quali restano pur sempre
strumento essenziale della nostra democrazia rappresentativa, si
disintossichino dall’ubriacatura.
Si ravvedano dal loro delirio di onnipotenza.
Riacquistino la sobrietà.
“Concorrano”, cioè, come dice l’art. 49 della Costituzione,
“a determinare la politica nazionale”, ma senza la pretesa di monopolizzarla
definitivamente. E tornino al loro compito fondamentale, che è quello di
ascoltare la gente, educare i comportamenti, mediare gli interessi, e non certo
di trasformarsi in forche caudine, da cui, anche per il più semplice sospiro,
bisogna necessariamente passare, attraverso sistemi di tessere, clientele e
patronati correntizi.
+ Don Tonino Bello
Seguiranno:
Lettera 2 - Vivere
con giustizia
Lettera 3 – Vivere con pietà
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