Da Bollettino salesiano luglio 2011
CHIARA BERTOGLIO
La figlia numero cinque
Un’inattesa avventura di vita e di
fede
Una bella, grande famiglia: quattro bellissime bimbe, nate dal 1999 in poi, un’altra in
arrivo. Marco oggi ha trentanove anni, da quattordici è sposato con Claudia. È
un educatore professionale; da dieci anni lavora presso la Caritas della sua città e
soprattutto nel carcere.
In passato si è occupato di adulti con disagio, senza fissa dimora, unità di strada per le vittime della tratta, malati terminali di HIV.
In passato si è occupato di adulti con disagio, senza fissa dimora, unità di strada per le vittime della tratta, malati terminali di HIV.
Eppure il giorno della nascita di Sara Benedetta, la figlia numero cinque, è
stato diverso.
«I medici mi avevano invitato a seguirli: dovevano parlarmi. Dai toni e
dalle espressioni dei medici si capiva che non potevo aspettarmi buone notizie,
non mi rendevo conto che in quegli istanti iniziava un’inattesa avventura di
vita e di fede».
«Non sono uno che sente le “voci”, né ho apparizioni mistiche. Eppure,
mentre la pediatra mi diceva che la mia piccola Sara ha la sindrome di Down, è
stato come se alle sue parole si sovrapponessero nel mio cuore quelle di
Qualcuno che mi diceva: “Caro Marco, qui c’è un grande regalo per voi”».
E alla “voce” di Dio, Marco risponde subito: “Beh, Signore, se ci doni una
bambina così vuol dire che, almeno un po’, di noi ti fidi”. Mentre abbracciavo
Sara per la prima volta, sono stato io a sentirmi abbracciato come non mai».
Non è tutto rose e fiori, ovviamente. «Questi cuccioli speciali», come li
definisce Marco, «sono anche straordinariamente delicati». Sara ha bisogno
delle cure della terapia intensiva, per una malformazione cardiaca congenita;
viene intubata e dovrà essere operata al massimo entro il sesto mese di vita.
«Il vero dramma», dice Marco, «non è accogliere un figlio Down, ma vivere la
malattia di un figlio».
Paradossalmente, però, è Sara che dà una mano ai suoi cari, nonostante sia
piccolissima. Ha una gran voglia di vivere e di guarire e, oltretutto, come
ricorda Marco sorridendo, «ha sempre potuto usufruire della miglior terapia:
coccole delle sorelle, calore di nonni e zii, vicinanza e preghiera degli amici
e della comunità, che, con il loro amore, hanno saputo costruire e rafforzare
la speranza».
«Sapevo che, in quel reparto, di fronte alla morte ed all’immensa sofferenza
degli innocenti, la mia fede sarebbe andata in crisi. Sapevo che avrei litigato
con Dio, ma temevo soprattutto di sperimentarne l’assenza».
Marco condivide con noi alcune righe che aveva scritto proprio in quei
giorni, nella rianimazione dell’ospedale, passati nell’impotenza davanti alla
piccola Sara, immobile, intubata, “crocifissa”.
«Io, in questo reparto, ho capito che dopo anni di preghiera, studio,
meditazione biblica e dotte letture, del Dio di Gesù Cristo non ho proprio
capito nulla. Molte volte, specialmente durante le catechesi quaresimali, avevo
commentato ironicamente il comportamento degli apostoli di fronte alla passione
di Gesù. Ma come? Sono stati fianco a fianco con il Cristo per tre anni e non
avevano capito che tipo di Messia Dio aveva inviato? Sorridevo davanti a questi
discepoli preoccupati di fare carriera, pronti a morire per un Messia
liberatore, ma traditori di quello fattosi agnello condotto al macello.
Perdonatemi, fratelli apostoli: se voi non avevate compreso Gesù, io non ho
capito né lui, né voi. In questa
rianimazione ho fatto pasqua. Il problema non è che si sente Dio lontano o peggio assente: Dio c’è, eccome! Lo si sente ben presente... Il problema è che sperimenti sulla tua pelle cosa significa che le sue vie non sono le nostre. Un Dio così mi ha fatto paura, e anch’io sono scappato, esattamente come gli apostoli nel Getsemani. Per me non c’è stato un gallo che ha cantato, ma l’allarme di un monitor che è scattato; non c’era nessuno ad accusarmi di nulla, ma come Pietro nel cortile della casa del sommo sacerdote, pensando a Gesù, ho potuto solo dire: Io non lo conosco!».
rianimazione ho fatto pasqua. Il problema non è che si sente Dio lontano o peggio assente: Dio c’è, eccome! Lo si sente ben presente... Il problema è che sperimenti sulla tua pelle cosa significa che le sue vie non sono le nostre. Un Dio così mi ha fatto paura, e anch’io sono scappato, esattamente come gli apostoli nel Getsemani. Per me non c’è stato un gallo che ha cantato, ma l’allarme di un monitor che è scattato; non c’era nessuno ad accusarmi di nulla, ma come Pietro nel cortile della casa del sommo sacerdote, pensando a Gesù, ho potuto solo dire: Io non lo conosco!».
«Quando Sara è entrata in casa per la prima volta, Giona, il cane di
famiglia, dopo averla brevemente annusata, le si è accucciato accanto, e per
tutto il giorno non si è più mosso. Sembrava volerci dire che certi bambini
devono essere protetti e tutelati, forse più di altri. E che lui la sua parte
l’avrebbe fatta fedelmente e fino in fondo. I cani certe cose le sanno... e
noi?»
«Un bimbo Down, ordinariamente, non lo si cerca e non lo si augura a
nessuno», afferma senza mezzi termini. «Sara in pochi minuti mi ha spiegato che
non serve né essere pronti, né avere qualche vocazione speciale, basta essere
normali genitori che accolgono un bimbo.
Oggi con Sara la nostra famiglia è più ricca e felice e in casa non è
entrato un problema, ma un dono, esattamente come quando sono nate Chiara,
Giulia, Francesca e Lucia».
«Ormai, quasi tutti, durante una gravidanza, consigliati dai ginecologi,
optano per l’amniocentesi per avere una diagnosi prenatale della trisomia 21. E
presto basterà un esame del sangue. Con qualsiasi metodo la si ottenga, lo
scopo della diagnosi, di solito, è uno solo: non far nascere il bambino,
proprio perché è Down».
«Con Sara, in casa, è entrato un sorriso in servizio permanente effettivo:
lo so che si crede che questi bambini sopportino dei limiti che li penalizzano,
io mi convinco invece sempre di più che viceversa custodiscono delle capacità
di gioia e conoscano vie di felicità che in molti ci siamo persi per strada e
che loro possono insegnarci a recuperare».
«Ringrazio Dio perché con la nascita di Sara il FIL (Felicità Interna Lorda)
della famiglia si è impennato. Perché per lei non conta di chi è il compleanno:
l’importante è essere tanti, insieme, a far festa. Perché le patatine fritte in
tavola sono motivo sufficiente per esultare, come per un goal dell’Italia ai
mondiali. Perché i gatti con lei fanno le fusa, anche se li accarezza
contropelo. Perché se resto troppo tempo al computer, con precisione
scientifica sa pigiare quella sequenza di tasti che impallano il sistema e mi
ricorda che c’è di meglio da fare. Perché sembra sapere sempre dove abita la
felicità, e se mi perdo mi ci riporta. Perché, come tutti i bambini, si
arrabbia, piange, fa i capricci, tiene il muso e in un attimo passa tutto.
Perché se ho bisogno di uno di quegli abbracci che ti scaldano l’anima, lei me
ne garantisce almeno tre (rinnovabili). Perché ha un sorriso che potrei
brevettare come terapia antidepressiva, ma non si può: è gratis ed è per tutti!
Perché come ogni bimbo che nasce, Sara è una scommessa di Dio in favore
dell’uomo».
Marco conclude con un sorriso: «Quando, durante la gravidanza, abbiamo
affrontato il terribile (provate a mettere d’accordo quattro sorelle!) problema
del nome con cui battezzare la nuova arrivata, interminabili discussioni e
votazioni hanno preceduto la scelta di Sara, ma sul secondo nome siamo da
subito stati tutti d’accordo: senza saperlo ci eravamo già detti che quella
creatura sarebbe stata per noi e per sempre, Benedetta»
.
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