mercoledì 12 gennaio 2011

«Ho compassione dei miei rapitori, poveri diavoli abbruttiti dalla povertà»

Testimonianza di Padre Giancarlo Bossi, missionario nelle Filippine.

Santo Padre, sono felice di essere con lei questa sera per dire il mio grazie: a Dio per aver ancora una volta tenuta amorosamente la mia vita nelle sue mani; a Lei per avermi portato nel suo cuore di padre durante il mio sequestro; a tutti questi giovani perché con la loro preghiera e il loro amore mi ha dato il coraggio di rimanere fedele a Cristo, alla sua Chiesa, alla mia vocazione missionaria e alla gente a cui appartengo. Grazie in nome di Dio.


Mai avrei pensato nella mia vita di trovarmi di fronte a tanti giovani. Chiedo scusa se mi vedete impacciato. La parola non è il mio forte. Sono convinto che ciascuno di noi ha un sogno da realizzare. Ciascuno di noi ha qualche cosa da dire. Non solo con le parole, c’è anche chi si esprime con gesti, chi nel silenzio solidale, chi con un sorriso. L’importante è mantenere vivo il sogno della vita. L’importante è volare! Ragazzi, fatevi rapire dai vostri ideali! Io ho iniziato a sognare quando ho deciso di entrare in seminario, ho continuato il mio sogno durante la mia ordinazione sacerdotale, l’ho vissuto nelle Filippine per tantissimi anni. L’ho toccato con mano durante i giorni del mio rapimento.


Sono un missionario, dico un povero missionario, uno delle migliaia di preti impegnati in tutti i paesi poveri del mondo. Vivo nelle Filippine da 27 anni. Continuerò a farlo. Spero. Questa storia non mi cambia, non mi cambierà. Anzi, no, qualcosa di diverso c’è: ho smesso di fumare e spero di non riprendere. La mia avventura è iniziata il 10 giugno, festa del Corpus Domini, una festa a cui tengo molto. Avevo detto Messa alle 7.00 nella chiesa di Payao, poi ero salito sulla moto per andare a un’altra celebrazione.


Ho visto questi uomini in divisa, con i mitra. Pensavo fossero dell’esercito. Poi ho capito, ma la frittata ormai era fatta. Mi avevano preso. Ricordo che quando stavo salendo sulla barca con loro il mio primo pensiero è andato alla gente della mia parrocchia in Payao. Durante il lungo viaggio in mare, coperto da un telone, mi sono chiesto che cosa il Padre mi chiedeva. E’ così sono iniziati i 40 giorni di prigionia. Ho patito la fame, tantissimo, e la fatica. Ma non ho mai avuto paura di morire. Cercavo di parlare con i miei rapitori. Ho chiesto loro: «Voi pregate come me il Dio della Pace. Com’è che lo fate col mitra alla sinistra e un sequestrato alla destra?» Mi hanno risposto che Allah è nel cuore. Il rapimento è lavoro. Pagati per eseguire un rapimento, l’hanno fatto.


Sono stato per quaranta giorni sulle montagne. Mi ci hanno portato con forza. Però ho visto attorno a me persone povere, spaventate. Persone che volevano farsi forza tenendo tra le mani un fucile. Per loro ho provato compassione. Ho cercato anche di mettermi nei loro panni. Anche in loro ho visto la bontà di Dio. Quel Dio che ti prende per mano e che non ti lascia solo. Quel Dio che ti fa superare le paure e che entra in rapporto con te chiedendoti la totale disponibilità. Durante i quaranta giorni del mio deserto nella foresta mi sono sentito rinnovare. La mia preghiera è diventata più essenziale e forte. La mia disponibilità a Dio più incisiva. Nelle difficoltà con forza si sperimenta la tenerezza di Dio. Ti fa recuperare la dimensione del tuo essere dono. In quel momento ho chiesto al Padre di mandare un prete a Payao, che sapesse amare la gente di Payao.


I miei rapitori erano tutti giovanissimi, intorno ai vent’anni. Ho capito che avevano già ucciso. Cercavo di capire con le mie domande, di fissare un dialogo con i rapitori. Mi sono reso conto che anche loro sono dei poveri diavoli, abbrutiti più dalla povertà che dalla volontà di fare del male. Dall’esterno non arrivava nessuna notizia. I giorni passavano e mi sentivo scoraggiato. Col rosario mi tenevo aggiornato sulle date, ma la conta è stata estenuante. Temevo che il rapimento sarebbe durato 3, 4 mesi, così quando mi hanno detto che mi avrebbero lasciato andare non ci ho mai creduto. Pensavo mi prendessero in giro. Invece, mi hanno liberato. Il 19 luglio.


Ho voluto telefonare subito casa, per rassicurare la mia mamma, che proprio quel giorno ha compiuto 87 anni. E’ stata una telefonata d’istinto, di pancia. Sono in Italia da qualche settimana ormai, ma voglio tornare il prima possibile dalla mia parrocchia di Payao, dai miei bambini. I poveri hanno bisogno di persone capaci di amare senza limiti o condizioni, e a Payao la gente è povera. Io sono stato sequestrato fisicamente, ma sono troppi coloro che sono sotto sequestro della povertà. La loro prigionia può durare una vita. Qui, in Italia, mi capita di sentire dei bambini o anche dei grandi che, di fronte al cibo, dicono: «Che schifo». Nelle Filippine vedo i loro coetanei frugare nella spazzatura e ringraziare Dio se trovano qualcosa. C’è una distorsione profonda in tutto questo. Qui c’è bisogno di recuperare i valori, là nelle Filippine delle condizioni di vita più umane.


Ma permettetemi un ultimo pensiero: mi sono chiesto molte volte il perché del mio rapimento, perché proprio a me, che amo lavorare nel nascondimento e mi sono detto che ci sono molte persone che non vogliono pubblicità ma che nel segreto ogni giorno si prendono cura delle persone ammalate e sofferenti. Io sono qui per loro. La loro testimonianza dà forza ai nostri sogni, perciò chiedo a voi di applaudire a queste persone. Questo applauso è per loro!




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