Il coraggio di lasciarsi trasformare: un'ex-monaca racconta
Pubblico l'intensa esperienza che
mi ha scritto un'ex-monaca:
«Non ero educata a nessuna
religione e nell’età delle ideologie mi sono buttata nelle filosofie orientali.
Da un giorno all’altro diventai una credente fervente, direi fanatica. Poi,
partecipando in prima fila alle iniziative di un gruppo cattolico, germogliò il
desiderio di immergermi totalmente nel mistero e feci il grande passo di
diventare monaca in un monastero di clausura. All’inizio era tale la novità che
ero euforica per tutto quello che succedeva. Alcune, le monache anziane, mi
guardavano con benevola comprensione e sospetto. Le poche giovani mi
invidiavano, come se io avessi ricevuto da Dio chissà quali grazie
straordinarie. L’euforia lentamente si ridusse a un’adesione a ciò che mi era
chiesto, e lo facevo a denti stretti. Non volevo deludere o deludermi. Il
tempo, che prima mi mancava, ora non passava mai.
Durante gli esercizi spirituali che
ci tenne un bravo predicatore, ebbi modo di parlare con lui che, dopo avermi
ascoltato, mi pose una domanda che mi destabilizzò “Lei è certa di aver dato
tutto a Dio?”. Non risposi ma per giorni e giorni quella domanda divenne un
chiodo fisso. Mi tornarono alla mente le parole della madre badessa che i
consigli evangelici non sono una prassi esteriore, ma un modo d’essere che ha
le radici nella coscienza. Erano proprio i consigli evangelici di povertà,
castità e obbedienza che avrei voluto vivere perfettamente, ma avevo
l’impressione che qualcosa non funzionasse.
Mi resi conto che ciò che mi
portava avanti e mi sosteneva era il gusto di fare qualcosa che lasciasse gli
amici senza parole. Oppure la voglia di raggiungere vette non raggiunte da
nessuno. Ora, tirando le somme, il bilancio era deludente se non drammatico. Il
mio orgoglio, in un posto di gente buona e fedele, non reggeva. Cominciarono a
tornare violenti i ricordi. Mi sentivo condannata a morte e caddi in un
tremendo stato di depressione che richiese cure e colloqui vari e mi si
prospettò la possibilità di fare un anno fuori dal monastero.
La famiglia di una monaca mi offrì
un appartamentino che aveva vicino al mare.
Quando arrivai alla casa di
villeggiatura il mare era particolarmente agitato. Era la fine di febbraio. Al
sereno si alternavano giorni tremendi. Facevo lunghe passeggiate accompagnata
dal rumore delle onde.
Il mare era come me: agitato o
sereno, scrigno di mondi invisibili e misteriosi. In una di queste passeggiate
conobbi Alberto. Lui facendo la sua corsa giornaliera aveva trovato una bella
conchiglia e senza preamboli me la mostrò. Poi mi chiese se ero del posto. In
breve cominciai a fare anch’io la mia corsa quotidiana. Non era una cosa nuova
per me che avevo fatto tanto sport, ma da anni mi sentivo arrugginita. Alberto
era rimasto vedovo dopo aver curato l’amatissima moglie fino agli ultimi
istanti. I due figli già all’università, vivevano nella città dove sempre
avevano abitato. Lui, ormai in pensione, si era ritirato nella casetta al mare
e viveva degli hobby di filatelia, numismatica e giardinaggio.
Quando mi toccò parlare della mia
vita non sapevo da dove cominciare. Lui mi disse: “Ci sono dei momenti nella
vita in cui bisogna pescare le parole non dalla mente, ma dal cuore. La mente
sa mentire. Il cuore no”.
Intanto in un colloquio fatto con
lo psichiatra, dovetti convenire con lui, che le cose stavano andando bene e mi
diminuì il dosaggio degli psicofarmaci.
La presenza di Alberto si estendeva
nelle mie giornate, nei miei programmi e, lentamente anche nel mio futuro.
Glielo dissi. Lui aveva atteso che raggiungessi questa stazione della vita, ma
non fece nulla per appropriarsi di spazi della mia coscienza che neanche io
conoscevo.
Una mattina, dopo la solita corsa
in riva al mare, vedendo gli occhi di Alberto pieni di amore verso di me,
provai una specie di paura. Mi resi conto in un baleno che amare qualcuno
significava espropriarmi di tutto ciò che sapevo, di tutto ciò che ero. Dovevo
saper rischiare la mia vita. Per la prima volta ho capito cosa significhi
essere poveri: amare.
Tornai a casa, scrissi alla madre
badessa e fissai un appuntamento con lei.
Avevo trovato la mia vita: non
significava soltanto Alberto, ma la possibilità che lui mi dava di vivere il
Vangelo. Ciò che per anni avevo cercato di raggiungere con la volontà ora mi
veniva rivelato come un seme che era già in me. È cresciuta in me l’ammirazione
verso quelle consorelle che, donando la loro vita a Dio, erano arrivate al
punto di stare alla sua presenza perché
ho capito che era questo che le rendeva capaci di essere povere, caste,
obbedienti e recluse. Mi sembrarono il bene più grande dell’umanità.
Alberto mi aveva riportato a me
stessa. Ci siamo sposati dopo qualche anno. La convivenza con una persona vera,
matura, è diventata il mio monastero, uno scrigno di bene che mi educa
all’assoluto.
Forse qualcuno si chiederà se
quello che ho fatto è stato un passo indietro. Solo ora mi rendo conto che la
vocazione è l’adesione al proprio vero essere, già programmato per essere un
messaggio. La vita claustrale, inconcepibile nel rumore di oggi, è forse la
prova più visibile della presenza di Dio, della vicinanza di Dio. Le monache
sono delle antenne. La loro grandezza è aver creduto possibile una richiesta apparentemente
impossibile.
Ho voluto raccontarti la mia storia
perché tanti ti leggono e vorrei far sapere a tutti che il bene non è quello
che pensiamo e vogliamo noi, ma è la presenza di Dio che è amore. Tutta l’arte
della vita è arrivare a mettersi davanti a questa “presenza” e avere il
coraggio di lasciarsi trasformare».
http://registainvisibile.blogspot.it Tanino Minuta
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