martedì 17 settembre 2013

Le vie del Signore: Lui è via, verità e vita




Il coraggio di lasciarsi trasformare: un'ex-monaca racconta

 

 

Pubblico l'intensa esperienza che mi ha scritto un'ex-monaca: 

«Non ero educata a nessuna religione e nell’età delle ideologie mi sono buttata nelle filosofie orientali. Da un giorno all’altro diventai una credente fervente, direi fanatica. Poi, partecipando in prima fila alle iniziative di un gruppo cattolico, germogliò il desiderio di immergermi totalmente nel mistero e feci il grande passo di diventare monaca in un monastero di clausura. All’inizio era tale la novità che ero euforica per tutto quello che succedeva. Alcune, le monache anziane, mi guardavano con benevola comprensione e sospetto. Le poche giovani mi invidiavano, come se io avessi ricevuto da Dio chissà quali grazie straordinarie. L’euforia lentamente si ridusse a un’adesione a ciò che mi era chiesto, e lo facevo a denti stretti. Non volevo deludere o deludermi. Il tempo, che prima mi mancava, ora non passava mai.

Durante gli esercizi spirituali che ci tenne un bravo predicatore, ebbi modo di parlare con lui che, dopo avermi ascoltato, mi pose una domanda che mi destabilizzò “Lei è certa di aver dato tutto a Dio?”. Non risposi ma per giorni e giorni quella domanda divenne un chiodo fisso. Mi tornarono alla mente le parole della madre badessa che i consigli evangelici non sono una prassi esteriore, ma un modo d’essere che ha le radici nella coscienza. Erano proprio i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza che avrei voluto vivere perfettamente, ma avevo l’impressione che qualcosa non funzionasse.

Mi resi conto che ciò che mi portava avanti e mi sosteneva era il gusto di fare qualcosa che lasciasse gli amici senza parole. Oppure la voglia di raggiungere vette non raggiunte da nessuno. Ora, tirando le somme, il bilancio era deludente se non drammatico. Il mio orgoglio, in un posto di gente buona e fedele, non reggeva. Cominciarono a tornare violenti i ricordi. Mi sentivo condannata a morte e caddi in un tremendo stato di depressione che richiese cure e colloqui vari e mi si prospettò la possibilità di fare un anno fuori dal monastero.

La famiglia di una monaca mi offrì un appartamentino che aveva vicino al mare.
Quando arrivai alla casa di villeggiatura il mare era particolarmente agitato. Era la fine di febbraio. Al sereno si alternavano giorni tremendi. Facevo lunghe passeggiate accompagnata dal rumore delle onde.

Il mare era come me: agitato o sereno, scrigno di mondi invisibili e misteriosi. In una di queste passeggiate conobbi Alberto. Lui facendo la sua corsa giornaliera aveva trovato una bella conchiglia e senza preamboli me la mostrò. Poi mi chiese se ero del posto. In breve cominciai a fare anch’io la mia corsa quotidiana. Non era una cosa nuova per me che avevo fatto tanto sport, ma da anni mi sentivo arrugginita. Alberto era rimasto vedovo dopo aver curato l’amatissima moglie fino agli ultimi istanti. I due figli già all’università, vivevano nella città dove sempre avevano abitato. Lui, ormai in pensione, si era ritirato nella casetta al mare e viveva degli hobby di filatelia, numismatica e giardinaggio.

Quando mi toccò parlare della mia vita non sapevo da dove cominciare. Lui mi disse: “Ci sono dei momenti nella vita in cui bisogna pescare le parole non dalla mente, ma dal cuore. La mente sa mentire. Il cuore no”.
Intanto in un colloquio fatto con lo psichiatra, dovetti convenire con lui, che le cose stavano andando bene e mi diminuì il dosaggio degli psicofarmaci.

La presenza di Alberto si estendeva nelle mie giornate, nei miei programmi e, lentamente anche nel mio futuro. Glielo dissi. Lui aveva atteso che raggiungessi questa stazione della vita, ma non fece nulla per appropriarsi di spazi della mia coscienza che neanche io conoscevo.
Una mattina, dopo la solita corsa in riva al mare, vedendo gli occhi di Alberto pieni di amore verso di me, provai una specie di paura. Mi resi conto in un baleno che amare qualcuno significava espropriarmi di tutto ciò che sapevo, di tutto ciò che ero. Dovevo saper rischiare la mia vita. Per la prima volta ho capito cosa significhi essere poveri: amare.

Tornai a casa, scrissi alla madre badessa e fissai un appuntamento con lei.
Avevo trovato la mia vita: non significava soltanto Alberto, ma la possibilità che lui mi dava di vivere il Vangelo. Ciò che per anni avevo cercato di raggiungere con la volontà ora mi veniva rivelato come un seme che era già in me. È cresciuta in me l’ammirazione verso quelle consorelle che, donando la loro vita a Dio, erano arrivate al punto di stare  alla sua presenza perché ho capito che era questo che le rendeva capaci di essere povere, caste, obbedienti e recluse. Mi sembrarono il bene più grande dell’umanità.

Alberto mi aveva riportato a me stessa. Ci siamo sposati dopo qualche anno. La convivenza con una persona vera, matura, è diventata il mio monastero, uno scrigno di bene che mi educa all’assoluto.
Forse qualcuno si chiederà se quello che ho fatto è stato un passo indietro. Solo ora mi rendo conto che la vocazione è l’adesione al proprio vero essere, già programmato per essere un messaggio. La vita claustrale, inconcepibile nel rumore di oggi, è forse la prova più visibile della presenza di Dio, della vicinanza di Dio. Le monache sono delle antenne. La loro grandezza è aver creduto possibile una richiesta apparentemente impossibile.

Ho voluto raccontarti la mia storia perché tanti ti leggono e vorrei far sapere a tutti che il bene non è quello che pensiamo e vogliamo noi, ma è la presenza di Dio che è amore. Tutta l’arte della vita è arrivare a mettersi davanti a questa “presenza” e avere il coraggio di lasciarsi trasformare».

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