Gesù, il pastore santo, bello e buono
IV domenica di Pasqua – ANN0 B 2018
Gv 10,11-18
In quel tempoGesù disse ai suoi discepoli:« 11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».Commento di ENZO BIANCHI, monastero di Bose
Nei
brani evangelici che la chiesa (dopo quelli delle manifestazioni del
Risorto) ci propone per il tempo pasquale, sempre tratti dal quarto
vangelo, è il Gesù Cristo risorto che parla alla sua comunità,
rivelando la sua identità più profonda, identità che viene da Dio
suo Padre. Il Signore vivente per sempre è più che mai autorizzato
a presentarsi con il Nome stesso di Dio: “Io sono” (Egó
eimi). Quando Mosè
aveva chiesto a Dio che gli parlava dal roveto ardente di rivelargli
il suo Nome, Dio aveva risposto: “Io sono” (Es
3,14), Nome ineffabile, nome indicibile inscritto nel tetragramma
JHWH.
Il
Cristo vivente si rivela dunque come “Io sono”, e specifica: “Io
sono il pane della vita” (Gv
6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv
8,12); “Io sono la porta delle pecore” (Gv
10,7); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv
11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv
14,6); “Io sono la vite” (Gv
15,5). Nel nostro brano, dopo essersi presentato come la porta
dell’ovile, Gesù dichiara per due volte: “Io sono il pastore
buono e bello” (kalós),
riassumendo in sé l’immagine di tutti i pastori donati da Dio al
suo popolo (Mosè, David, i profeti), ma anche l’immagine di Dio
stesso, invocato e lodato come “Pastore di Israele” (Sal
80,2), dei credenti in lui.
Gesù
aveva evocato più volte l’immagine del pastore e del gregge da lui
pascolato (cf. Mt
9,36; 10,6; 15,24, ecc.), ma ora con questa rivelazione parla di
se stesso, si proclama Messia e Inviato da Dio per condurre l’umanità
alla vita piena, “venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano
in abbondanza” (Gv
10,10). Il buon pastore è l’opposto del pastore salariato, che
fa questo mestiere solo perché pagato, che guarda alla ricompensa
per il lavoro, ma che in verità non ama le pecore: queste non gli
appartengono, non sono destinatarie del suo amore e non contano nulla
per lui. Lo dimostra il fatto che, quando arriva il lupo, egli
abbandona le pecore e fugge via: vuole salvare se stesso, non le
pecore a lui affidate! Chi è il pastore mercenario o salariato? È
un funzionario, è colui che svolge il compito per il salario che
riceve o semplicemente perché l’essere pastore è ritenuto un
onore che gli provoca riconoscimento e gli dona anche gloria. Ma lo
si deve dire: il pastore salariato è facilmente riconoscibile nel
quotidiano, perché sta lontano dalle pecore e non le ama. A lui
basta governarle!
Al
contrario, l’amore del buon pastore per le sue pecore causa
addirittura il suo esporre, il suo deporre la vita per la loro
salvezza. Non solo egli spende la vita stando in mezzo alle pecore,
guidando il gregge, conducendolo in pascoli dove gli sia possibile
sfamarsi; ma può anche accadere che la minaccia per la vita del
gregge diventi minaccia per la vita stessa del pastore. È questo il
momento in cui il buon pastore si rivela. Questa solidarietà, questo
amore sono però possibili solo se il pastore non solo non è un
salariato, ma se conosce le sue pecore di una conoscenza particolare
che lo porta a discernere e a riconoscere l’identità di ciascuna
di esse: una conoscenza penetrativa che è generata dalla prossimità,
dall’assidua custodia del gregge.
Sì,
la prima qualità del pastore autentico è la vicinanza alle pecore:
sta con loro notte e giorno, nei deserti e nei prati, sotto il sole e
sotto la pioggia. Papa Francesco ha parlato di “prossimità della
cucina”, cioè dello stare là dove “si cucinano” le cose
decisive, quelle che contano per ogni pecora, per ogni gregge; ha
parlato di pastore che deve avere addosso “l’odore delle pecore”.
Immagini forti, che indicano l’urgenza che i pastori non stiano al
di sopra né ai margini, ma “in mezzo”, in piena solidarietà con
le pecore.
Gesù
cerca di spiegare questa comunione reciproca evocando addirittura la
conoscenza tra sé e il Padre, che lo ha inviato e del quale cerca di
realizzare giorno dopo giorno la volontà: “Io conosco le mie
pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e
io conosco il Padre”. Vi è in queste parole di Gesù l’essenza
della cura pastorale: una reciproca conoscenza penetrativa tra
pastore e pecore. Non solo il pastore conosce le pecore una per una,
in una relazione personale e in un vincolo d’amore, ma anche le
pecore conoscono il pastore, la sua vita, il suo comportamento, i
suoi sentimenti, le sue ansie e le sue gioie, perché il pastore è
loro vicino, prossimo. Le pecore non conoscono solo la voce del
pastore che ascoltano quando le richiama, ma conoscono anche la sua
presenza, a volte silenziosa, ma che sempre dà loro sicurezza e
pace.
Tale
conoscenza-comunione è certamente quella vissuta da Gesù nei suoi
giorni terreni, all’interno della sua comunità, con i suoi
discepoli e le sue discepole; ma è anche una comunione che trascende
i tempi, in quanto sarà vissuta nella storia tra il Risorto e quanti
egli attirerà a sé, chiamandoli da altri ovili. Venuto per tutti,
non solo per Israele, e volendo portare tutti alla pienezza della
vita, Gesù è consumato dal desiderio che vi sia un solo gregge
sotto un solo pastore e che tutti i figli di Dio dispersi siano
radunati (cf. Gv 11,52).
Proprio nell’evento della croce si manifesterà la gloria di Gesù
come gloria di chi ha amato fino alla morte e allora, innalzato da
terra, egli attirerà tutti a sé (cf. Gv
12,32) e darà inizio al raduno delle genti attorno a sé, fino
al compimento escatologico, quando “l’Agnello sarà il loro
pastore” (Ap 7,17).
Gesù non è un pastore come i pastori di Israele, ma proprio perché
è “la luce del mondo” (Gv
8,12) e “il Salvatore del mondo” (Gv
4,42) – avendo Dio amato il mondo (cf. Gv
3,16) –, egli è anche il pastore di tutta l’umanità, come
Dio è stato confessato e testimoniato.
Dopo
questa auto-rivelazione, ecco altre parole con cui Gesù esprime la
sua intimità, la sua comunione con Dio: “Per questo il Padre mi
ama: perché io depongo la mia vita, per riceverla di nuovo”.
Perché il Padre ama Gesù? Perché Gesù realizza la sua volontà,
quella volontà che è amore fino al dono della vita. In Gesù c’è
questo amore “fino all’estremo” (eis
télos: Gv
13,1), fino al dono della vita appunto, e c’è la fede di
poterla riceverla di nuovo dal Padre. Si faccia qui attenzione alla
traduzione, che può compromettere il senso delle parole di Gesù.
Gesù non dice: “Il Padre mi ama perché offro la mia vita per
riprenderla di nuovo”,
ma “per riceverla
di nuovo” (il
verbo lambáno
nel quarto vangelo significa sempre “ricevere” non “riprendere”).
L’offrire la vita da parte di Gesù sta nello spazio della fede,
non dell’assicurazione anticipata! Il comando del Padre è che lui
spenda, offra la vita; e la promessa del Padre è che così potrà
riceverla, perché “chi perde la sua vita la ritroverà, ma chi
vuole salvarla la perderà” (cf. Mc
8,35 e par.; Gv
12,25). Nessuno prende la vita a Gesù, nessuno gliela ruba, e la
sua morte non è né un destino (una necessità) né un caso (gli è
andata male…): no, il suo è un dono fatto nella libertà e per
amore, un dono di cui egli è stato consapevole lungo tutta la sua
vita, dicendo ogni giorno il suo “sì” all’amore.
Nelle
parole di Gesù, il Padre appare come l’origine e la fine di tutta
la sua attività: da lui viene il comando, che è nient’altro che
comando di amare, vissuto da Gesù nel suo discendere quale Parola
fatta carne (cf. Gv 1,14)
e nella sua vita umana nel mondo. E la morte di Gesù non è solo il
termine dell’esodo da questo mondo, ma è un atto compiuto (“È
compiuto!”: Gv 19,30),
il termine ultimo del suo vivere l’amore all’estremo. Gesù dà
la sua vita fino a morire, ma non con il desiderio di recuperare la
vita come premio, di riprenderla come un tesoro che gli spetta o come
un merito per l’offerta di sé, bensì nella consapevolezza che il
Padre gliela dona e che lui l’accoglierà perché “l’amore
basta all’amore” (Bernardo di Clairvaux). Gesù non ha dato la
sua vita per ragioni religiose, sacre, misteriche, ma perché quando
si ama si è capaci di dare per gli amati tutto se stessi, tutto ciò
che si è.
Sulla
tomba di un cristiano della fine del II secolo, un certo Abercio, si
legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che
ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”. Sì, Gesù è il
pastore santo, buono e bello, con occhi grandi, che raggiungono
tutti, anche noi oggi. E da questi occhi noi ci sentiamo protetti e
guidati.
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