martedì 28 gennaio 2014

Il Papà è...il Papà deve essere....



Tratto da Bruno Ferrero "Un Decalogo per il papà"



UN DECALOGO PER IL PAPA’



1- Il primo dovere di un padre verso i suoi figli è amare la madre. La famiglia è un sistema che si regge sull’amore. Non quello presupposto, ma quello reale, effettivo. Senza amore è impossibile sostenere a lungo le sollecitazioni della vita familiare. Non si può fare i genitori “per dovere”. E l’educazione è sempre un “gioco di squadra”. Nella coppia, come con i figli che crescono, un accordo profondo, un’intima unione danno piacere e promuovono la crescita, perché rappresentano una base sicura. Un papà può proteggere la mamma dandole in “cambio”, il tempo di riprendersi, di riposare e ritrovare un po’ di spazio per sé.



2- Il padre deve soprattutto esserci. Una presenza che significa “voi siete il primo interesse della mia vita”. Affermano le statistiche che, in media, un papà trascorre meno di cinque minuti al giorno in modo autenticamente educativo con i propri figli. Esistono ricerche che hanno riscontrato un nesso tra l’assenza del padre e lo scarso profitto scolastico, il basso quoziente di intelligenza, la delinquenza e l’aggressività. Non è questione di tempo, ma di effettiva comunicazione. Esserci, per un papà vuol dire parlare con i figli, discorrere del lavoro e dei problemi, farli partecipare il più possibile alla sua vita. E’ anche imparare a notare tutti quei piccoli e grandi segnali che i ragazzi inviano continuamente.


3 – Un padre è un modello, che lo voglia o no. Oggi la figura del padre ha un enorme importanza come appoggio e guida del figlio. In primo luogo come esempio di comportamenti, come stimolo a scegliere determinate condotte in accordo con i principi di correttezza e civiltà. In breve, come modello di onestà, di lealtà e di benevolenza. Anche se non lo dimostrano, anche se persino lo negano, i ragazzi badano molto di più a ciò che il padre fa, alle ragioni per cui lo fa. La dimostrazione di ciò che chiamiamo “coscienza” ha un notevole peso quando venga fornita dalla figura paterna.


 






4 – Un padre dà sicurezza. Il papà è il custode. Tutti in famiglia si aspettano protezione dal papà. Un papà protegge anche imponendo delle regole e dei limiti di spazio e di tempo, dicendo ogni tanto “no”, che è il modo migliore per comunicare: “ho cura di te”.







6 – Un padre ricorda e racconta. Paternità è essere l’isola accogliente per i “naufraghi della giornata”. E’ fare di qualche momento particolare, la cena per esempio, un punto d’incontro per la famiglia, dove si possa conversare in un clima sereno. Un buon papà sa creare la magia dei ricordi, attraverso i piccoli rituali dell’affetto. Nel passato il padre era il portatore dei “valori”, e per trasmettere i valori ai figli bastava imporli. Ora bisogna dimostrarli. E la vita moderna ci impedisce di farlo. Come si fa a dimostrare qualcosa ai figli, quando non si ha neppure il tempo di parlare con loro, di stare insieme tranquillamente, di scambiare idee, progetti, opinioni, di palesare speranze, gioie o delusioni?



5 – Un padre incoraggia e dà forza. Il papà dimostra il suo amore con la stima, il rispetto, l’ascolto, l’accettazione. Ha la vera tenerezza di chi dice: “Qualunque cosa capiti, sono qui per te!”. Di qui nasce nei figli quell’atteggiamento vitale che è la fiducia in se stessi. Un papà è sempre pronto ad aiutare i figli, a compensare i punti deboli.


 





7 – Un padre insegna a risolvere i problemi. Un papà è il miglior passaporto per il mondo ” di fuori”. Il punto sul quale influisce fortemente il padre è la capacità di dominio della realtà, l’attitudine ad affrontare e controllare il mondo in cui si vive. Elemento anche questo che contribuisce non poco alla strutturazione della personalità del figlio. Il papà è la persona che fornisce ai figli la mappa della vita.







8 – Un padre perdona. Il perdono del papà è la qualità più grande, più attesa, più sentita da un figlio. Un giovane rinchiuso in un carcere minorile confida: “Mio padre con me è sempre stato freddo di amore e di comprensione. Quand’ero piccolo mi voleva un gran bene; ci fu un giorno che commisi uno sbaglio; da allora non ebbe più il coraggio di avvicinarmi e di baciarmi come faceva prima. L’amore che nutriva per me scomparve: ero sui tredici anni… Mi ha tolto l’affetto proprio quando ne avevo estremamente bisogno. Non avevo uno a cui confidare le mie pene. La colpa è anche sua se sono finito così in basso. Se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato diversamente. Non avrei abbandonato mio figlio nel momento più delicato della sua vita. Lo avrei incoraggiato a ritornare sulla retta via con la comprensione di un vero padre. A me è mancato tutto questo”.






9 – Il padre è sempre il padre. Anche se vive lontano. Ogni figlio ha il diritto di avere il suo papà. Essere trascurati o abbandonati dal proprio padre è una ferita che non si rimargina mai.











10 – Un padre è immagine di Dio. Essere padre è una vocazione, non solo una scelta personale. Tutte le ricerche psicologiche dicono che i bambini si fanno l’immagine di Dio sul modello del loro papà. La preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre Nostro. Una mamma che prega con i propri figli è una cosa bella, ma quasi normale. Un papà che prega con i propri figli lascerà in loro un’impronta indelebile.

venerdì 24 gennaio 2014

La pace del mondo e la pace di Gesù Cristo





OSARE LA PACE PER FEDE

Don Tonino Bello - Discorso all’Arena di Verona del 30 aprile 1989 - 2ª parte



La seconda cosa che voglio dirvi, strettamente collegata con la prima, è questa: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei profeti, il Dio che in Gesù ha manifestato il suo volto trinitario, non è il Dio di Socrate, di Platone, di Aristotele, delle accademie, dei filosofi insomma.
Il Dio dei filosofi è l’ultima conclusione della nostra attività raziocinante. È la soglia suprema messa in cima a tutta l’impalcatura degli umani sillogismi. È la casa che svetta sui basamenti della nostra logica organica.
La sua tenuta dipende dalla saldezza dì questi basamenti. Se un solo passaggio razionale
cede sotto l’urto di un ragionamento opposto, ruzzola anche Dio che ci sta sopra. Il Dio dei filosofi, insomma, è un Dio che regge solo se è garantito dalla sicurezza dei nostri argomenti. E poi non scalda. Non coinvolge. Non ti riempie di passione.

Accettare questo Dio è come sposare una donna di cui hai preso tutte le misure, di cui ti sei fatto consegnare tutti i certificati di garanzia, e contro i cui rischi di abbandono ti sei premunito con mille polizze di assicurazione.
Il Dio di Gesù Cristo è diverso. Non viene dal basso. Ci è stato rivelato dall’alto. Non è frutto della carne e del sangue della nostra sapienza terrena. È un Dio garantito solo dalla nudità della nostra fede. Non è un Dio a cui ci si aggrappa con i funambolismi della mente. Ma un Dio a cui ci si abbandona con la fiducia del cuore, dietro un richiamo che inesorabilmente ti precede.

Attenzione! Non è che si voglia disprezzare la fatica della ricerca umana o che si intenda svilire l’importanza di un Dio trovato dagli sforzi del nostro pensiero. No! Quella della ricerca razionale di Dio è una fatica benedetta, che ogni cristiano deve compiere con tutti gli altri uomini che lo cercano con cuore sincero.
Diciamo solo che questo Dio, dopo che l’abbiamo trovato, non ci appaga. Anzi, non ci si può chiamare neppure credenti per il semplice fatto di averlo raggiunto attraverso gli impervi sentieri del pensiero. Il Dio vero, quello di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, quello rivelatoci da Gesù, è totalmente Altro ed è totalmente Oltre. E noi credenti, dopo aver condiviso la fatica del pensiero con tutti i ricercatori onesti, dobbiamo essere l’indice puntato verso questo totalmente Altro e
totalmente Oltre.

La pace del mondo e la pace di Gesù Cristo. Ed eccoci al momento cruciale di questa seconda riflessione. Per la pace vale lo stesso discorso che si è fatto per Dio.

C’è una pace dei filosofi. E c’è una pace di Cristo. La prima è quella prodotta dai nostri
sforzi diplomatici, costruita dai dosaggi delle cancellerie, frutto degli equilibri messi in atto dalle potenze terrene. Al punto che, se una sola condizione va in crisi, si rompe il giocattolo e ruzzola tutto intero il castello.

La pace di Cristo, invece, è quella che non esige garanzie, che scavalca le coperture prudenziali, e che resiste anche quando crollano i puntelli del bilanciamento fondato sul calcolo. Questo è il
senso profondo dell’espressione evangelica che proprio oggi è risuonata nella Messa:
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come ve la dà il mondo, io la do a voi”
(Gv 14,27)

Questo è il salto di qualità a cui ci provoca la frase divenuta ormai celebre di D. Bonhoeffer: “Osare la pace per fede”. Ci riempie di commozione un testo che questo grande testimone del Risorto scrisse nel 1934, e che è divenuto un monito per noi:
“Una via alla pace che passi per la sicurezza non c’è. La pace infatti deve essere osata. È un grande rischio, e non si lascia mai e poi mai garantire.

giovedì 23 gennaio 2014

Frutto della giustizia sarà la pace (Isaia32,17)


PACE, GIUSTIZIA E SALVAGUARDIA DEL CREATO 
di don Tonino Bello
Discorso all’Arena di Verona del 30 aprile 1989 - 1ª parte


La prima cosa che desidero dirvi è questa: l’evoluzione del concetto di pace ha subito lo stesso arricchimento che, nella rivelazione cristiana, ha avuto il concetto di Dio.
Nell’economia del Vecchio Testamento, il monoteismo assoluto di Jahweh era il cardine portante di tutta la storia della salvezza. Poi, “quando venne la pienezza dei tempi”, Gesù ci ha rivelato che Dio è pluralità di persone: Padre, Figlio e Spirito. Esse vivono così profondamente la convivialità delle differenze, esistono cioè così unicamente l’una per l’altra, che formano un solo Dio.
Si è passati, così, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario di Dio.

Per la pace è avvenuta la stessa cosa. Siamo giunti alla pienezza dei tempi, ed è balenata alle nostre coscienze la convinzione che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato. Siamo passati, per così dire, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario della pace. Dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario della pace...

Tutto questo crea scandalo.
Finché per secoli e secoli nelle nostre chiese abbiamo parlato di pace, nessuno ha contestato. Quando, sulla scorta della Parola di Dio, si è scoperta la stretta parentela della pace con la giustizia, si sono scatenate le censure dei potenti. Sicché, la giustizia, collocata da Dio stesso accanto alla pace quale sua partner naturale, continua a destare, purtroppo, più sospetto di quanto non susciti scandalo quando viene collocata, sia pure come aggettivo, accanto alla guerra. Tant’è che si parla ancora di “guerra giusta”.

“... nella pienezza dei tempi”. Carissimi amici, anche per quanto riguarda la pace è giunta la pienezza dei tempi.
Oggi abbiamo il privilegio di capire che l’annuncio della Pace si completa, oltre che con la lotta per la giustizia, anche con l’impegno per la salvaguardia del creato. Quello della tutela dell’ambiente non è l’ultimo ritrovato della nostra furbizia brontolona o delle nostre strategie del consenso
.
Non è ammiccamento alle mode correnti. Ma è un compito primordiale che ci sovrasta come partner dello Spirito Santo, affinché la terra passi dal “Kàos”, cioè dallo sbadiglio di noia e di morte, al “Kòsmos”, cioè alla situazione di trasparenza e di grazia. E si realizzerà la splendida intuizione dì Isaia che, addirittura invertendone l’ordine, aveva collegato insieme salvaguardia del creato, giustizia e pace: 
“In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto.
Allora il deserto diventerà un giardino...
e la giustizia regnerà nel giardino...
e frutto della giustizia sarà la pace” (Is 32,15-17).

C’è da chiedersi: è mai possibile che questa visione trinitaria della pace, così saldamente
fondata sui plinti della Sacra Scrittura, abbia tanto stentato a diffondersi perfino nelle nostre Chiese?
La risposta è semplice: se solo ora dal monoteismo assoluto della pace siamo passati al monoteismo trinitario, è perché siamo giunti davvero alla pienezza dei tempi. Il che non significa che ormai il discorso sia acquisito. Tutt’altro. Come per il discorso trinitario su Dio, nei primi dieci secoli
del cristianesimo, si sono sostenute tante lotte, sono scoppiate tante dispute, e sono celebrati tanti Concili; così sarà per il discorso trinitario sulla pace.

martedì 21 gennaio 2014

La pace, vestaglia da camera o di zaino da viandante?




1 - LA PACE COME CAMMINO,   di  Don Tonino Bello





Iniziamo con questo post a pubblicare alcune conferenze sulla Pace di Don Tonino Bello, certi di fare cosa gradita per molti che aspirano ad un mondo di pace dove sarà possibile sentirsi fratelli.



 La parola a Don Tonino Bello:

A dire il vero non siamo molto abituati a legare il termine PACE a concetti dinamici.

Raramente sentiamo dire:

“Quell’uomo si affatica in pace”,

“lotta in pace”,

“strappa la vita coi denti in pace”...



Più consuete, nel nostro linguaggio, sono invece le espressioni:

“Sta seduto in pace”,

“sta leggendo in pace”,

“medita in pace” e,

ovviamente, “riposa in pace”.



La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera che lo zaino del viandante.

Più il comfort del salotto che i pericoli della strada.

Più il caminetto che l’officina brulicante di problemi.

Più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli.

Più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato.

Più il mistero della notte che i rumori del meriggio.



Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un dato, ma una conquista.

Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno.

Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo.



La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia.

Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio.

Rifiuta la tentazione del godimento.

Non tollera atteggiamenti sedentari.

Non annulla la conflittualità.

Non ha molto da spartire con la banale “vita pacifica”.



Sì, la pace prima che traguardo, è cammino.

E, per giunta, cammino in salita.



Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi, i suoi percorsi preferenziali

ed i suoi tempi tecnici, i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni.

Forse anche le sue soste.

Se è così, occorrono attese pazienti.



E sarà beato, perché operatore di pace,

non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi parte.

Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista, anche se mai – su questa

terra s’intende – pienamente raggiunta.



sabato 18 gennaio 2014

Papa Francesco, la fede e noi



La Chiesa è piena di cristiani sconfitti? 






Al centro dell’omelia del Papa, il brano della prima Lettera di San Giovanni in cui l’apostolo “insiste” su “quella parola che per lui è come l’espressione della vita cristiana”: “rimanere nel Signore”, per amare Dio e il prossimo. Questo “rimanere nell’amore” di Dio è opera dello Spirito Santo e della nostra fede e produce un effetto concreto:

“Chiunque rimane in Dio, chiunque è stato generato da Dio, chiunque rimane nell’amore vince il mondo e la vittoria è la nostra fede.

Da parte nostra, la fede.
Da parte di Dio - per questo ‘rimanere’ - lo Spirito Santo, che fa questa opera di grazia.
Da parte nostra, la fede. E’ forte!

E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede! La nostra fede può tutto! E’ vittoria! E questo sarebbe bello che lo ripetessimo, anche a noi, perché tante volte siamo cristiani sconfitti.
Ma la Chiesa è piena di cristiani sconfitti, che non credono in questo, che la fede è vittoria; che non vivono questa fede, perché se non si vive questa fede, c’è la sconfitta e vince il mondo, il principe del mondo”.

Gesù – ricorda il Papa – ha lodato molto la fede dell’emorroissa, della cananea o del cieco nato e diceva che chi ha fede come un granello di senape può muovere le montagne. “Questa fede – afferma - chiede a noi due atteggiamenti: confessare e affidarci”. Innanzitutto “confessare”:

“La fede è confessare Dio, ma il Dio che si è rivelato a noi, dal tempo dei nostri padri fino ad ora; il Dio della storia.
E questo è quello che tutti i giorni noi recitiamo nel Credo. E una cosa è recitare il Credo dal cuore e un’altra come pappagalli, no?
Credo, credo in Dio, credo in Gesù Cristo, credo… Io credo in quello che dico? Questa confessione di fede è vera o io la dico un po’ a memoria, perché si deve dire? O credo a metà?

Confessare la fede! Tutta, non una parte! Tutta! E questa fede custodirla tutta, come è arrivata a noi, per la strada della tradizione: tutta la fede!

E come posso sapere se io confesso bene la fede? C’è un segno: chi confessa bene la fede, e tutta la fede, ha capacità di adorare, adorare Dio”.
“Noi sappiamo come chiedere a Dio, come ringraziare Dio ma adorare Dio, lodare Dio è di più! Soltanto chi ha questa fede forte è capace dell’adorazione”.
 
“Io oso dire che il termometro della vita della Chiesa è un po’ basso in questo”: c’è poca capacità di adorare, “non ne abbiamo tanta, alcuni sì…”. E questo “perché nella confessione della fede noi non siamo convinti o siamo convinti a metà”. Dunque – sottolinea il Papa – il primo atteggiamento è confessare la fede e custodirla. L’altro atteggiamento è “affidarsi”:

“L’uomo o la donna che ha fede si affida a Dio: si affida! Paolo, in un momento buio della sua vita, diceva: ‘Io so bene a chi mi sono affidato’. A Dio! Al Signore Gesù! Affidarsi: e questo ci porta alla speranza. Così come la confessione della fede ci porta all’adorazione e alla lode di Dio, l’affidarsi a Dio ci porta ad un atteggiamento di speranza. Ci sono tanti cristiani con una speranza con troppa acqua, non forte: una speranza debole. Perché? Perché non hanno la forza e il coraggio di affidarsi al Signore. Ma se noi cristiani crediamo confessando la fede, anche custodendo, facendo la custodia della fede, e affidandoci a Dio, al Signore, saremo cristiani vincitori. E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede!”.

Appunti presi da  articolo di Sergio Centofanti -Radio Vaticana


9 gennaio 2014

sabato 11 gennaio 2014

Don Bosco: " Mi fidavo di Dio". Un modello e un esempio ancora oggi



Per me Dio è sempre stato un buon papà

Padre Pascual Chavez , Rettor maggiore dei salesiani  fa parlare don Bosco

 "Da mihi animas cetera tolle!




Una premessa necessaria

Tra le molte cose che ho scritto, invano troverai un mio diario spirituale, una descrizione del mio itinerario intimo, un'autobiografia come specchio della mia spiritualità. Non era il mio stile.
Forse per quel naturale riserbo che è proprio dei contadini, probabilmente per la formazione che avevo ricevuto non mi sentivo portato ad aprirmi, certamente perché preferivo conservare nel mio cuore il ricordo di tante esperienze, di lotte e di conquiste apostoliche, anziché manifestarle in pubblico.
Per questo non troverai nei miei libri e nelle mie conversazioni né confidenze né testimonianze del mio personale rapporto con Dio e con il suo mistero.


Eppure, ti posso assicurare che tutta la mia esistenza è nata, cresciuta e si è sviluppata in un intimo contatto con il soprannaturale. Se il mondo è stato il mio banco di prova, la fede è stata la mia risposta di credente. Ero solito affermare: «In mezzo alle prove più dure ci vuole gran fede in Dio».
Questo lo dicevo agli altri. Per primo, a me stesso. 


Le certezze che mi hanno sorretto

Mi ha sempre guidato una certezza: in ogni cosa ho sempre sentito una garanzia dall'alto. Pur nella consapevolezza dei miei limiti, sentivo bruciare nel mio cuore l'ardore del servo biblico, la vocazione del profeta che sa di non potersi sottrarre ai voleri divini. Anche se, quando parlavo dei miei "sogni" non ho mai usato il termine biblico di "annunciazione", pure ho sempre ritenuto che fossero autentici avvertimenti dall'alto da valutare con prudente umiltà e fiducioso ascolto. Quando, negli anni della mia piena maturità rileggevo la mia esperienza apostolica, provavo in me una specie di vertigine, di stupore evangelico che mi faceva esclamare: «Ero un povero prete, solo, abbandonato da tutti, assai peggio che solo, perché dispregiato e perseguitato; avevo un vago pensiero di fare del bene... Sembrava allora un sogno il pensiero del povero prete, eppure Iddio realizzò, compì i desideri di quel poveretto. Come si siano fatte le cose, io appena saprei dirvelo. Non me ne so dare ragione io stesso. Questo io so, che Dio lo voleva».
Mi lasciavo guidare da una frase raccolta tante volte dalle labbra di mia madre: «Siamo nelle mani del Signore, il quale è il più buono dei padri che veglia di continuo al nostro bene, e sa ciò che è meglio per noi e quello che non è».


Occorreva una buona dose di fede, di coraggio e di abbandono alla Provvidenza del Signore; questa non mi mancava, anche se verso la fine della vita confesserò: «Se io avessi avuto cento volte più fede, avrei fatto cento volte più di quello che ho fatto».


Affrontavo la vita con tutte le sfide che essa mi presentava con serena e filiale fiducia nel Signore. Ai miei ragazzi scrivevo già nel 1847 in quel libro di preghiere e di formazione cristiana che avevo intitolato Il Giovane Provveduto e che si stava rivelando un autentico bestseller indovinato nello stile e nel contenuto: «Non sei al mondo solamente per godere, per farti ricco, per mangiare, bere e dormire, come fanno le bestie, ma il tuo fine si è di amare il tuo Dio». Descrivevo il cristiano come «un viaggiatore in cammino verso il Cielo». Per me, il Signore e il Cielo sostanzialmente si equivalevano. Infatti volevo i miei giovani «felici nel tempo e nell'eternità». 

Quando parlavo di Dio come «Padre misericordioso e provvidente» la mia preghiera cambiava di tono: in genere, era una preghiera semplice e cordiale la mia, senza eccessive inflessioni di voce. Ma quando pronunciavo le parole Padre nostro le dicevo con un accento che - e me lo riferivano con molta semplicità i presenti - tradiva un insolito trasporto del cuore. Avevo pianto la morte di mio papà Francesco con quell'innocente e straziante dolore che è capace di manifestare solo un bambino che non ha ancora compiuto due anni d'età. Quella morte mi aveva introdotto nel mistero di un Dio che non abbandona mai i suoi figli. E sin dai primi anni di vita mi rapportai con Lui come un padre buono e misericordioso
.
Un impegno per sempre

Scrissi nel 1854: «Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del Cielo. Dio mi aiuti di poter continuare fino all'ultimo respiro di mia vita. Così sia».
Sono parole impegnative che sono diventate il programma definitivo della mia intera esistenza, cui non sono mai venuto meno. Tanto è vero che, nella presentazione del libro Il Giovane Provveduto, potevo fare un'affermazione molto coraggiosa, ma soprattutto vera: «Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate giovani, perché io vi ami assai, e vi posso accertare che troverete libri propostivi da persone di gran lunga più virtuose e più dotte di me, ma difficilmente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo, e che desideri la vostra vera felicità».


Mi stavo impegnando per sempre alla causa dei giovani, anche se storicamente vivevo un momento di grande incertezza. Poco prima (siamo a luglio 1846) avevo sofferto un collasso fisico che mi aveva portato alle soglie della morte; poi, dopo un breve periodo di convalescenza trascorso ai Becchi, ero tornato a Torino. Là c'era stato un dialogo teso e difficile con la buona Marchesa Barolo. Ebbene, son contento di poter ripetere oggi la mia netta presa di posizione di allora fatta alla generosa benefattrice (che mi amava come il figlio che non aveva mai avuto), il mio "sì" ufficiale e definitivo, il mio "credo" a favore dei giovani. Proprio oggi, quando vedo la Congregazione dilatata e presente in oltre 130 nazioni: «La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato». E senza nessun appoggio umano mi ero abbandonato «a quello che Dio avrebbe disposto di me».


Mi fidavo di Dio, Colui che era sempre stato il mio buon "papà".
Da Bollettino Salesiano, gennaio 2014

giovedì 9 gennaio 2014

Papa Francesco : le cinque dita




PAPA FRANCESCO,  preghiera per la famiglia



   
Il pollice è il dito a te più vicino.
Comincia quindi col pregare per coloro che ti sono vicini.
Sono le persone di cui ci ricordiamo più facilmente. Pregare per i nostri cari è "un dolce obbligo".

Il dito successivo è l'indice.
Prega per coloro che insegnano, educano e curano. Questa categoria comprende maestri, professori, medici e sacerdoti. Hanno bisogno di sostegno e saggezza per indicare agli altri
la giusta direzione. Ricordali sempre nelle tue preghiere.

Il dito successivo è il più alto, è chiamato medio
Ci ricorda i nostri governanti. Prega per il presidente, i parlamentari, gli imprenditori e i dirigenti.
Sono le persone che gestiscono il destino della nostra patria e guidano l'opinione pubblica. Hanno bisogno della guida di Dio.


Il quarto dito è l'anulare.
Lascerà molto sorpresi, ma è questo il nostro dito più debole, come può confermare qualsiasi insegnante di pianoforte. E' lì per ricordarci di pregare per i più deboli, per chi ha sfide da affrontare, per i malati. Hanno bisogno delle tue preghiere di giorno e di notte.
Le preghiere non saranno mai troppe. Ed è lì per invitarci a pregare anche per le coppie sposate.

E per ultimo arriva il nostro dito mignolo, il più piccolo di tutti, come piccoli dobbiamo sentirci noi di fronte a Dio e al prossimo.
Come dice la Bibbia, "gli ultimi saranno i primi". Il dito mignolo ti ricorda di pregare per te stesso.
Dopo che avrai pregato per tutti gli altri, sarà allora che potrai capire meglio quali sono
le tue necessità guardandole dalla giusta prospettiva.





mercoledì 8 gennaio 2014

L'arte del guardare i figli (valido anche per catechisti)



PINO PELLEGRINO

da Bollettino Salesiano gennaio 2014

9. Guardare il figlio

Da mesi veniamo proponendo le principali mosse dell'arte di educare.
Siamo partiti dal "seminare", siamo passati all'"aspettare", al "parlare", all'"amare"... ed eccoci al "guardare": guardare il figlio.
Una mossa che, in prima battuta, può sembrare di poco conto! In realtà gli occhi hanno un potere eccezionale!

 

L'arte del guardare il figlio

Il contatto visivo è una delle più potenti vie di educazione (o diseducazione).
Gli occhi parlano più forte della voce: sono il canale attraverso il quale trasmettiamo i nostri pensieri, le nostre emozioni.
Gli occhi possono trasmettere rabbia, tristezza, sdegno, disprezzo, freddezza, oppure calore, tenerezza, accoglienza, gioia, speranza, conforto, amore (lo sanno bene i fidanzati che talora sembrano mangiarsi con gli occhi!). 


Guardare il figlio è come dirgli: "Tu esisti per me, tu sei entrato nei miei pensieri, nei miei affetti".
Nei campi di concentramento tedeschi era severamente proibito ai prigionieri di guardare negli occhi i loro carcerieri. Lo sguardo avrebbe potuto intenerirli!
Insomma, una cosa è certa: se guardassimo i figli almeno come guardiamo il bagno e l'automobile, avremmo ragazzi meno tristi, meno infelici, meno delusi della vita. 


"Se guardassimo...": è una parola!
Si tratta di guardare con arte, cestinando gli sguardi sbagliati, per scegliere esclusivamente, gli sguardi buoni

Sguardo sbagliato è, ad esempio, lo sguardo poliziesco che tacchina in continuazione il figlio senza mai lasciarlo libero di respirare, di muoversi, di uscire, di scendere in cortile per giocare... Sguardo sbagliato è lo sguardo minaccioso dei genitori che mirano di più a farsi ubbidire che a convincere. Terzo sguardo sbagliato è lo sguardo indifferente. Questo è il peggiore in assoluto! L'indifferenza è la bestia nera di tutti i figli del mondo! La pericolosità dello sguardo indifferente sta nel fatto che può azzerare quella grande forza cosmica che è la voglia di vivere! Lo sguardo indifferente manda a dire al figlio: "Tu sei nessuno". 
Messaggio che taglia le radici alla vita! A ben pensarci, non è forse vero che ha senso essere al mondo solo se si è per qualcuno? 

Davvero: gli sguardi sbagliati sono l'inverno; gli sguardi buoni sono la primavera. Sguardo buono è lo sguardo generoso che vede nel figlio ciò che nessuno vede. Sguardo buono è sguardo sempre nuovo: vede che il figlio cambia e quindi si adatta alla sua crescita (vi è un abisso tra il bambino e l'adolescente: trattare il figlio da perenne bambino è uno sbaglio da cartellino rosso!). Sguardo buono è lo sguardo ottimista, incoraggiante, luminoso: lo sguardo che dà valore al figlio e tifa per lui. 

Aveva tutte le ragioni il filosofo francese Louis Lavelle (1883-1951) a sostenere che "il maggior bene che possiamo fare agli altri non è comunicare loro la nostra ricchezza, bensì rivelargli la loro". 

Fortunati i figli che hanno genitori con gli occhi simili (per quanto è possibile!) a quelli del 'facchino di Dio' don Orione (1872-1940) che, come ricorda il professor Enrico Medi (1911-1974) "ti bruciavano l'anima e ti entravano dentro come la luce esce dagli angeli". I genitori con tale sguardo hanno la patente pedagogica a punti pieni! 




sabato 4 gennaio 2014

Se non hai gustato non puoi annunciare…





Ciò che le nostre mani hanno toccato di don Tonino Bello

Il particolare è di una bellezza incredibile.

Nella vita di Francesco scritta da Tommaso da Gelano si legge che il santo, nella notte in cui a Greggio costruì il primo presepe, mentre cantava il Vangelo della messa di Natale essendo egli diacono, ogni volta che pronunciava il nome di Gesù «passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quella  parola».



Questa scena di Francesco che si lecca le labbra mi sembra una splendida simbologia che deve farci capire una cosa. Di Gesù non basta la conoscenza puramente intellettuale, accademica,  esprimibili con i concetti sia pure raffinati della teologia. Con lui occorre un contatto che scavalchi l’approccio teorizzante, e si traduca in relazioni che facciano perno sullo spessore dell’esperienza, non escludano la copiosità del sentimento, e utilizzino le innumerevoli altre strade di conoscenza che non siano necessariamente quelle delle idee chiare e disunte.



Di Gesù, insomma, non si solo teoria. Ma soprattutto «soterìa», che è una parola greca che significa salvezza. E visto che mi son messo a parlare difficile, voglio continuare caparbiamente citandovi una frase dei teologi medievali che affermavano: «caro  salutis cardo». Significa questo: che la carne, il corpo, la visibilità materiale insomma, è il cardine attorno a cui si articola la salvezza, anzi è il veicolo attraverso  cui l’opera  salvifica di Dio entra nelle  arterie   della  storia.

Se perciò di Gesù si «soterìa», cioè salvezza, e se è vero che la salvezza non può fare a meno della tangibilità della carne, e dello spessore del corpo, comprendere bene che l’aver fatto esperienza vitale di Gesù costituisce il passaggio obbligato per poter efficacemente parlare di lui.



Senza  questo  diploma  di laurea  conseguito  nelle  università  del deserto,  sui  banchi  della  preghiera,  nelle  strutture  del  coinvolgimento  esistenziale,  dopo diuturni  contatti  a  tu  per  tu  col  Maestro, dopo esami estenuanti  preparati  nel sacrificio,  e dopo infinite  esercitazioni di «riconoscimento»    del volto di lui nel volto dei fratelli.. perfino la laurea conseguita nelle accademie pontificie è incapace di   abilitare   al1’annuncio   del   Vangelo.

In altre parole: se prima non hai gustato la dolcezza del suo nome,  è inutile  che  ti  metti  a  predicarlo.



Se il buon profumo di Cristo non promana dalle tue mani che hanno stretto le sue, le parole che annunci sono prive di garanzie. Se non hai da esibire veli di Veronica attraverso i quali hai toccato il suo volto, le tue lezioni su di lui saranno sempre inaffidabili. Se Gesù non ha segnato le sue impronte digitali in qualche parte del tuo essere, è fatica sprecata tentare un identikit di lui inseguendo  astrazioni  di  riporto.



Se egli non ti ha lasciato scritto di suo pugno un promemoria sulla pagina dell’anima, o non ti ha messo almeno un autografo in calce alle tue righe, è vano spiegarlo agli altri seguendo gli appunti segnati  sulle  pagine  di  carta.



Per  dipingere  Cristo,  diceva  il  Beato  Angelico,  bisogna  vivere di lui. Ebbene, per dipingerlo sulla tela di una esistenza umana, soprattutto se  è la tela delicata di un fanciullo, bisogna intridere il pennello della parola nel vermiglio delle sue piaghe, nel verde dei suoi occhi, nel cavo del suo cuore, nell’acquaforte dei suoi gesti, nella tempera dei suoi sentimenti, nelle profondità dei suoi pensieri,  nelle  trasparenze   dei  suoi  sogni.



Prima di raccontarlo, Gesù, bisogna averlo toccato. Quello che le nostre mani hanno tostato del Verbo della Vita, noi lo annunziamo anche a noi. .. Chi parla è san Giovanni: il discepolo che ha toccato, non solo con le mani ma anche col capo, le carni immacolate del Verbo.

Toccato,   non  spinto.



Vi ricorderete certamente di quella donna malata che guarì dopo aver toccato il mantello di Gesù. Come mai di tanta gente, che pure si accalcava attorno al Maestro e che certamente si trovava in situazione di bisogno, solo lei ottenne la guarigione? A questa domanda sant'Agostino risponde con una splendida battuta, che,  e ancora una volta dovete perdonarmi vi cito in latino: «turba premit, illa tangit». Che significa: «la turba spinge; lei, invece, tocca».



Noi diciamo francamente che Gesù lo spintoniamo un po’ troppo, ma senza toccarlo.

Lo manipoliamo nei sacramenti, ignorandolo con le ritualità. Lo urtiamo con implorazioni da cerimoniale, comprimendolo nei frasari sa copione. Gli  strisciamo accanto con la ripetibilità delle sacre faccende e gli piantiamo i gomiti nei fianchi, violentando i poveri al cui interni egli si nasconde.



Ma non lo tocchiamo con l’emozione della carezza. Non lo sfioriamo con abbracciamenti di abbandono. E per questo che non potremo mai guarire da quella  malattia  che  si  chiama  «inattendibilità».

E allora, sapete che vi dico? Che un pezzo di quella frase tanto esecrata di Tommaso, ognuno la può prendere per buona applicandola a sé. Cambiandone, però, la conclusione.

Se non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mano nel suo costato…gli altri non crederanno!