sabato 28 giugno 2014

La corruzione è una merce... di Papa Francesco




CORRUZIONE

"Questa è la definizione: è una merce! Poi cosa farà il Signore con i corrotti, qualsiasi sia la corruzione… Ieri abbiamo detto che c’erano tre tipi, tre gruppi: il corrotto politico, il corrotto affarista e il corrotto ecclesiastico. Tutti e tre facevano del male agli innocenti, ai poveri, perché sono i poveri che pagano la festa dei corrotti! Il conto va a loro. Il Signore dice chiaramente cosa farà: ‘Io farò venire su di te una sciagura e ti spazzerò via. Sterminerò a Acab ogni maschio, schiavo o libero in Israele".

"Sono traditori i corrotti, ma di più. La prima cosa nella definizione del corrotto è uno che ruba, uno che uccide. La seconda cosa: cosa spetta ai corrotti? Questa è la maledizione di Dio, perché hanno sfruttato gli innocenti, coloro che non possono difendersi e lo hanno fatto con i guanti bianchi, da lontano, senza sporcarsi le mani. La terza cosa: ma c’è una uscita, una porta d’uscita per i corrotti? Sì! ‘Quando sentì tali parole, Acab si stracciò le vesti, indossò un sacco sul suo corpo e digiunò. Si coricava con il sacco e camminava a testa bassa. Cominciò a fare penitenza"

“Quando noi leggiamo sui giornali che questo è corrotto, che quell’altro è un corrotto, che ha fatto quell’atto di corruzione e che la tangente va di qua e di là e anche tante cose di alcuni prelati, come cristiani il nostro dovere è chiedere perdono per loro e che il Signore gli dia la grazia di pentirsi, che non muoiano con il cuore corrotto…"

Cronaca, storia e coscienza


Nel male che ci circonda è necessario cercare prospettive di luce e di speranza, risvegliare la coscienza per lottare contro il male che sembra invadere e devastare il mondo.



La coscienza morale in gioco di mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto

Tre avvenimenti recenti, di natura molto diversa, mi inducono a proporre una riflessione che si muove fra cronaca e storia, volta ad evidenziare gli aspetti della coscienza morale che sono in gioco in essi e che riguardano ognuno di noi. 
Il primo è la terribile vicenda del giovane uomo di Motta Visconti che ha ucciso la moglie e i due figlioletti, confessando poi di averlo fatto perché li sentiva come una gabbia imposta alla sua libertà. Lo stesso assassino sembra abbia invocato il massimo della pena per sé, mostrando di avere almeno un barlume di consapevolezza della gravità del male compiuto. Molti hanno parlato di un "raptus" di follia omicida, anche se lo stesso autore del delitto ha riconosciuto la premeditazione. L'atrocità del fatto suscita immensa pietà verso le vittime, ponendo al contempo la domanda su come sia stato possibile che nella coscienza di una persona all'apparenza normale abbia potuto maturarsi un simile proposito. Interrogativi come questo non trovano facili risposte: soprattutto non devono far spazio a giudizi sommari, tanto in senso colpevolista, quanto in direzione della pietà che lo stesso carnefice suscita per aver distrutto con le proprie mani i beni più preziosi della propria esistenza. Un aspetto emerge da questa vicenda, e cioè l'immane potenzialità del male che ogni essere umano è capace di compiere, e con essa quella linea d'ombra fra luce e tenebra in cui si muovono le scelte del libero arbitrio.
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Sia pur in termini più temperati, la lotta fra male e bene si affaccia in altri tristissimi fatti di cronaca degli ultimi tempi: mi riferisco alla corruzione e al latrocinio che sono emersi dalle inchieste sulla realizzazione di opere che avrebbero dovuto essere fiore all'occhiello dell'iniziativa pubblica e dell'imprenditoria del nostro Paese. Si tratta da una parte degli scandali connessi a Expo 2015, dall'altra delle tangenti pagate ai corrotti nelle opere relative al Modulo Sperimentale Elettromeccanico, progettato per la difesa di Venezia e della laguna dalle acque alte. È perfino incredibile che personaggi potenti, cui non mancava nulla, abbiano mostrato un'avidità speculare all'estendersi del loro potere. Anche qui viene da chiedersi come sia stato possibile che l'ostentazione di pubbliche virtù e la dichiarata volontà di servizio al bene comune potessero collegarsi così sfrontatamente con la voracità di guadagni facili e smisurati. È il tarlo della corruzione, male dagli effetti devastanti: la corruzione «uccide», ha affermato Papa Francesco in diverse occasioni. 
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Un terzo evento accaduto nelle ultime settimane, precisamente l'8 giugno, può aiutarci a riconoscere alcune prospettive di luce e di speranza riguardo alla vittoria del male, che sembra devastare le coscienze e dominare la scena della storia: è l'incontro di preghiera promosso in Vaticano da Papa Francesco con la partecipazione dei Presidenti di Israele e della Palestina, Shimon Peres e Abu Mazen. Il valore unico di quest'avvenimento sta nel cambiamento di prospettiva che esso introduce rispetto a ogni precedente ricerca "ufficiale" della pace in Medio Oriente: il Vescovo di Roma non ha deresponsabilizzato nessuno rispetto al dovere di lavorare per la pace e di combattere e vincere il male dell'odio che avvelena tutti, ricordando che «per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all'incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza». Il Il fatto, poi, che l'incontro sia stato proposto e realizzato come momento di preghiera all'unico Dio di tutti i credenti, introduce quel cambio di piano di cui c'era e c'è immenso bisogno: mettersi insieme al cospetto dell'Eterno vuol dire riconoscere i propri limiti e la propria debolezza, misurare il bene della pace da cercare non solo sul proprio interesse, ma su quello di tutti, e specialmente dei poveri, e impegnarsi nella profondità della propria coscienza davanti al giudizio ultimo, cui nulla sfugge, a essere costruttori di un mondo più giusto per tutti.
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giovedì 19 giugno 2014

Travolti e presi da un mondo che incalza sempre di più?





 

 Stili di vita: io sono sempre connesso








 Questo articolo di Fabio Cialdi ci darà delle motivazioni per scegliere dei momenti di riflessione e di relax, di calma e di pace interiore.

  Il tipo di connessione permanente che vorrei raggiungere.



Sono presente a un importante incontro con un gruppo ristretto e qualificato.
Suona un cellulare e la persona si alza piedi e esce per rispondere. È subito connesso con qualcuno lontano. Pensavo fosse connesso con noi in sala.
Un altro controlla la posta sullo smartphone, un altro ancora chatta. 



Che bello, siamo finalmente tutti permanente connessi. Possiamo comunicare con chiunque, in ogni parte del mondo, in ogni momento. Non ci si sconnette mai. Siamo connessi sempre con persone o con fatti lontani, reali o fantastici (come i games) che essi siano. Per essere connessi con i lontani occorre naturalmente essere sconnessi con i vicini, anche se a volta si tenta disperatamente la bilocazione, fenomeno mistico riservato a pochi eletti (i quali tra l’altro, pur essendo contemporaneamente in due luoghi diversi, agiscono soltanto in uno di essi!).

È normale per tanti chattare fino alle tre di notte. I risultati si vedono al mattino sul lavoro o a scuola: la sconnessione dopo la connessione continua; sconnessione proprio nel senso di mancanza di nesso: fuori di testa, fino a forme di dipendenza peggiori dell’alcool e della droga. Uno strumento nato per favorire i rapporti finisce col deteriorarli e creare il vuoto attorno.

Una forma di connessione permanente esisteva già prima di internet. I mistici e i maestri spirituali la chiamavano: “stare alla presenza di Dio”. Non avveniva grazie a strumenti tecnici sofisticati, ma a un esercizio di raccoglimento, di unificazione interiore per liberare dalla schiavitù delle mille cose che tirano da ogni parte e lacerano l’unità interiore. Ci si sentiva alla sua presenza e lo si sentiva presente. Avveniva anche un invio continuo di sms, che allora si chiamavano “giaculatorie”, letteralmente “frecciate” che partivano dal cuore e dicevano a Dio, con la fantasia dell’amore, le parole più belle, le confidenze più intime. Si giungeva perfino ad chattare, in un dialogo costante con Lui.



Il risultato non era l’estraneazione dal reale, ma la capacità di svolgere il proprio lavoro, di rapportarsi con gli altri, di compiere ogni azione come fosse la cosa importante, con una presenza di sé che sapeva gustare la vita e che a tutto dava valore. È il tipo di connessione permanente che vorrei raggiungere.

Fabio Ciardi
http://fabiociardi.blogspot.it/2014/06/connessi-e-disconnessi.html

domenica 15 giugno 2014

Amore o pietà?...




Quei volti interrogano tutti noi 
di Enzo Bianchi


Abbiamo bisogno di vederli transitare a centinaia dalle nostre stazioni ferroviarie per interrogarci su cosa significhi la parola profugo.
Ormai ci siamo tragicamente assuefatti alle immagini degli sbarchi a Lampedusa, ci nascondiamo dietro il termine disumano di «clandestino», ci sentiamo più infastiditi che angosciati dalle immagini che rimbalzano dall’Iraq o dalla Siria.



Immagini lontane che, se si fanno troppo vicine, possiamo sempre oscurare, cancellare passando a qualche video più rilassante, magari a una partita del mondiale di calcio. Poi, all’improvviso, in una stazione qualunque, su un vagone come tanti, in mezzo a pendolari e vacanzieri ecco apparire dei volti, ecco uomini, donne e bambini in carne ed ossa, persone disperate abitate da un’ultima speranza. Sono lì, in mezzo a noi, non ne capiamo la lingua, non sappiamo se sono musulmani o cristiani, non capiamo come abbiano fatto ad arrivare, da dove vengano, dove vogliano andare. 
Sono lì loro e siamo lì noi: il fastidio che avvertivamo vedendoli come massa in lontananza, come fiumana in televisione, diventa sgomento, indignazione, senso di impotenza, compassione. 



Quegli occhi in cui è racchiuso l’ultimo lembo del loro mondo ormai crollato, quei volti su cui si intrecciano la paura e la dignità ferita, quei bambini che hanno smarrito l’infanzia prima ancora di averla assaporata, quelle donne che sopravvivono aggrappate al loro essere madri, pronte a tutto per salvare i loro figli... Ecco, questo sono i profughi: non un’emergenza sociale, non un problema politico, non uno strumento di propaganda, non un’eccedenza di mercato, non un effetto collaterale di una strategia sbagliata. Ma un grido, un appello, un richiamo a tornare alla dignità del comune appartenere all’umanità. Certo, possiamo e dobbiamo interrogarci su cosa li spinge a fuggire dalla loro terra (anche se alcuni di loro non hanno mai conosciuto una terra di cui poter dire «mia»), sulle responsabilità dirette e indirette di tale scempio; possiamo e dobbiamo chiederci come agire a monte, per impedire la tragedia prima che si consumi, possiamo autoassolverci e accusare gli altri, tutti gli altri... Ma intanto quei volti sono lì e ci interrogano. Che ne è della tua qualità umana? Che ne è della tua fede cristiana, della tua etica laica, della tua filosofia di vita? Cosa ne abbiamo fatto di parole come umanità, solidarietà, fratellanza, compassione? In una parola: «Uomo, dove sei?».





Davanti non alla categoria astratta del «profugo», non all’idea generica del «clandestino» bensì davanti a un bambino, a una donna, a un uomo affranto perché non riesce a proteggere quelle due creature più deboli siamo capaci di ripetere il gesto di fastidio con cui tante volte abbiamo scacciato come mosche quelle immagini lontane che arrivavano a disturbare la nostra tranquillità? Allora, dietro ai volti dei profughi siriani, in mezzo ai binari di una stazione, ci appaiono anche i cristiani dell’Iraq in cammino verso un luogo di riparo che non esiste, le vittime di guerre cui non sanno e non sappiamo nemmeno dare un nome, i rifugiati che cercano scampo dall’avidità e dalla violenza di chi ha per unico Dio il proprio potere e la propria ricchezza. Quei volti ci obbligano a ricordare eventi frettolosamente rimossi dalla nostra memoria: le nostre «guerre umanitarie», la nostra democrazia da esportazione, il primato da noi accordato all’approvvigionamento energetico hanno causato solo negli ultimi giorni mezzo milione di profughi dall’Iraq, la fuga di intere comunità cristiane presenti in quei luoghi da quindici secoli, lo sgretolamento di una testimonianza di convivenza possibile.



Ancora ieri papa Francesco si è scagliato contro «una cultura dello scarto», contro «un sistema economico che non regge più e che per sopravvivere deve fare la guerra, come sempre hanno fatto i grandi imperi. Visto che non si può fare la terza guerra mondiale, si fanno guerre regionali. Cosa significa questo? Significa che si fabbricano e si vendono armi, e così i bilanci delle economie idolatre, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si risanano». Sì, in nome di una via di uscita dalla crisi economica, di un nostro stare meglio, giustifichiamo l’espansione dell’industria degli armamenti, togliamo vincoli all’esportazione delle armi, non ci chiediamo troppo a chi le vendiamo, fingiamo di non sapere in che mani finiscono dopo qualche triangolazione commerciale più o meno lecita, ci illudiamo di non essere responsabili dell’uso che viene fatto di strumenti di morte fabbricati e messi in circolazione da noi. Il prezzo di un fallace risanamento delle nostre economie sono quegli esseri umani smarriti nelle nostre stazioni, accalcati in barconi che non riescono nemmeno a galleggiare, convogliati in campi profughi in cui manca tutto tranne la disperazione e la morte. 



Fino a quando ciò che resta della nostra umanità è ancora disposto a pagare un prezzo umano così alto? Fino a quando continueremo a guardare quelle persone come fossero estranei? Fino a quando non li riconosceremo come nostri familiari, parenti disperati che invocano il nostro aiuto? Fino a quando non vedremo noi stessi riflessi nei loro occhi di dolore e di speranza?
(fonte: “La Stampa” del 14 giugno 2014)

http://pietrevive.blogspot.it

giovedì 12 giugno 2014

PAPA FRANCESCO: L'AMORE NON E' UNA TELENOVELA,

Il vero amore è concreto, punta sui fatti e non sulle parole; sul dare e non sulla ricerca di vantaggi.



(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.006, Ven. 10/01/2014)

Il vero amore non è quello delle telenovele. Non è fatto di illusioni. Il vero amore è concreto, punta sui fatti e non sulle parole; sul dare e non sulla ricerca di vantaggi. La ricetta spirituale per vivere l’amore fino in fondo è nel verbo «rimanere», un «doppio rimanere: noi in Dio e Dio in noi». 

Papa Francesco, nella messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta giovedì mattina, 9 gennaio, ha indicato nella persona di Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, il fondamento unico del vero amore. È questa verità, ha detto, «la chiave per la vita cristiana», «il criterio» dell’amore.

Come di consueto il Pontefice ha preso le mosse per la sua meditazione dalla liturgia del giorno, in particolare dalla prima lettura (1 Giovanni 4, 11-18) dove si trova più volte una parola decisiva: «rimanere».
L’apostolo Giovanni, ha detto il Papa, «ci dice tante volte che dobbiamo rimanere nel Signore. E ci dice anche che il Signore rimane in noi». In sostanza afferma «che la vita cristiana è proprio “rimanere”, questo doppio rimanere: noi in Dio e Dio in noi». 

Ma «non rimanere nello spirito del mondo, non rimanere nella superficialità, non rimanere nella idolatria, non rimanere nella vanità. No, rimanere nel Signore!». E il Signore, ha spiegato il Papa, «contraccambia questo» nostro atteggiamento e così «Lui rimane in noi». Anzi è «prima Lui a rimanere in noi» che, invece, «tante volte lo cacciamo via» e così «non possiamo rimanere in Lui».

«Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» scrive ancora Giovanni che, ha affermato il Papa, ci dice in pratica come «questo rimanere è lo stesso di rimanere nell’amore». Ed è una «cosa bella sentire questo dell’amore!» ha aggiunto, mettendo però in guardia: «Guardate che l’amore di cui parla Giovanni non è l’amore delle telenovele! 

No, è un’altra cosa!». Infatti, ha spiegato il Pontefice, «l’amore cristiano ha sempre una qualità: la concretezza. L’amore cristiano è concreto. Lo stesso Gesù, quando parla dell’amore, ci parla di cose concrete: dare da mangiare agli affamati, visitare gli ammalati». Sono tutte «cose concrete» perché, appunto «l’amore è concreto». È «la concretezza cristiana».

Papa Francesco ha quindi avvertito: «quando non c’è questa concretezza» si finisce per «vivere un cristianesimo di illusioni, perché non si capisce bene dove è il centro del messaggio di Gesù». L’amore «non arriva a essere concreto» e diventa «un amore di illusioni». È una «illusione» anche quella che «avevano i discepoli quando, guardando Gesù, credevano che fosse un fantasma» come racconta il passo evangelico di Marco (6, 45-52). Ma, ha commentato il Papa, «un amore di illusioni, non concreto, non ci fa bene».
«Ma quando succede questo?» è la domanda posta dal Papa per comprendere come si cada nell’illusione e non nella concretezza. E la risposta, ha detto, si trova chiarissima nel Vangelo. Quando i discepoli pensano di vedere un fantasma, ha spiegato il Pontefice citando il testo, «dentro di sé erano fortemente meravigliati perché non avevano compreso il fatto dei pani, la moltiplicazione dei pani: il loro cuore era indurito». E «se tu hai il cuore indurito, non puoi amare. E pensi che l’amore è figurarsi cose. No, l’amore è concreto!».

C’è un criterio fondamentale per vivere davvero l’amore. «Il criterio del rimanere nel Signore e il Signore in noi — ha affermato il Papa — e il criterio della concretezza cristiana è lo stesso, sempre: il Verbo è venuto in carne». Il criterio è la fede nell’«incarnazione del Verbo, Dio fatto uomo». E «non c’è un cristianesimo vero senza questo fondamento. La chiave della vita cristiana è la fede in Gesù Cristo Verbo di Dio fatto uomo».
Papa Francesco ha anche suggerito il modo di «conoscere» lo stile dell’amore concreto, spiegando che «ci sono alcune conseguenze di questo criterio». Ne ha proposte due. La prima è che «l’amore è più nelle opere che nelle parole. Lo stesso Gesù l’ha detto: non quelli che mi dicono “Signore, Signore!”, che parlano tanto, entreranno nel Regno dei cieli; ma quelli che fanno la volontà di Dio». L’invito è dunque a essere «concreti» facendo «le opere di Dio». 

C’è una domanda che ciascuno deve porre a se stesso: «Se io rimango in Gesù, rimango nel Signore, rimango nell’amore, cosa faccio — non cosa penso o cosa dico — per Dio o cosa faccio per gli altri?». Dunque «il primo criterio è amare con le opere, non con le parole». Le parole, del resto, «le porta via il vento: oggi ci sono, domani non ci sono».

Il «secondo criterio di concretezza» proposto dal Papa «è: nell’amore è più importante dare che ricevere». La persona «che ama dà, dà cose, dà vita, dà se stesso a Dio e agli altri». Invece la persona «che non ama e che è egoista cerca sempre di ricevere. Cerca sempre di avere cose, avere vantaggi. Ecco, allora, il consiglio spirituale di «rimanere col cuore aperto, non come era quello dei discepoli che era chiuso» e li portava a non capire. Si tratta, ha affermato ancora il Papa, di «rimanere in Dio» così «Dio rimane in noi. E rimanere nell’amore».

L’unico «criterio per rimanere è nella nostra fede in Gesù Cristo Verbo di Dio fatto carne: proprio il mistero che celebriamo in questo tempo». E ha poi riaffermato che «le due conseguenze pratiche di questa concretezza cristiana, di questo criterio, sono che l’amore è più nelle opere che nelle parole; e che l’amore è più nel dare che nel ricevere».
Proprio «guardando il Bambino, in questi tre ultimi giorni del tempo di Natale», guardando il Verbo che si è fatto carne», Papa Francesco ha concluso l’omelia invitando a rinnovare «la nostra fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. E chiediamo la grazia — ha auspicato — che ci dia questa concretezza di amore cristiano per rimanere sempre nell’amore» e dunque facendo in modo «che Lui rimanga in noi».



MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
L'amore non è una telenovela
Giovedì, 9 gennaio 2014


No! L'amore non è una telenovela.....