mercoledì 19 marzo 2014

Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so.



NOSTRO FRATELLO GIUDA
di Don Primo Mazzolari



Conosciuto come il parroco di Bozzolo, fu una delle più significative figure del Cattolicesimo italiano nella prima metà del Novecento. Il suo pensiero anticipò alcune delle istanze dottrinarie e pastorali del Concilio Vaticano II (in particolare relativamente alla "Chiesa dei poveri", alla libertà religiosa, al pluralismo, al "dialogo coi lontani", alla distinzione tra errore ed erranti), tanto da venire definito "carismatico e profetico".

Sul piano politico, infine, i suoi atteggiamenti e la sua predicazione espressero una decisa opposizione all'ideologia fascista e ad ogni forma di ingiustizia e di violenza (tra l'altro nascose e salvò, durante la guerra, numerosi ebrei e antifascisti, come, dopo di essa, anche alcune persone coinvolte nel fascismo ingiustamente perseguitate).



Miei cari fratelli, è proprio una scena d’agonia e di cenacolo. Fuori c’è tanto buio e piove. Nella nostra Chiesa, che è diventata il Cenacolo, non piove, non c’è buio, ma c’è una solitudine di cuori di cui forse il Signore porta il peso. C’è un nome, che torna tanto nella preghiera della Messa che sto celebrando in commemorazione del Cenacolo del Signore, un nome che fa’ spavento, il nome di Giuda, il Traditore.



Un gruppo di vostri bambini rappresenta gli Apostoli; sono dodici. Quelli sono tutti innocenti, tutti buoni, non hanno ancora imparato a tradire e Dio voglia che non soltanto loro, ma che tutti i nostri figlioli non imparino a tradire il Signore. Chi tradisce il Signore, tradisce la propria anima, tradisce i fratelli, la propria coscienza, il proprio dovere e diventa un infelice.



Io mi dimentico per un momento del Signore o meglio il Signore è presente nel riflesso del dolore di questo tradimento, che deve aver dato al cuore del Signore una sofferenza sconfinata. Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. E’ uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda.



Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!” Amico! Questa parola che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello.



Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore.



Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro. Vi ho domandato: come mai un apostolo del Signore è finito come traditore? Conoscete voi, o miei cari fratelli, il mistero del male? Sapete dirmi come noi siamo diventati cattivi?

Ricordatevi che nessuno di noi in un certo momento non ha scoperto dentro di sé il male.



L’abbiamo visto crescere il male, non sappiamo neanche perché ci siamo abbandonati al male, perché siamo diventati dei bestemmiatori, dei negatori. Non sappiamo neanche perché abbiamo voltato le spalle a Cristo e alla Chiesa. Ad un certo momento ecco, è venuto fuori il male, di dove è venuto fuori? Chi ce l’ha insegnato? Chi ci ha corrotto? Chi ci ha tolto l’innocenza? Chi ci ha tolto la fede? Chi ci ha tolto la capacità di credere nel bene, di amare il bene, di accettare il dovere, di affrontare la vita come una missione? Vedete, Giuda, fratello nostro! Fratello in questa comune miseria e in questa sorpresa! Qualcheduno però, deve avere aiutato Giuda a diventare il Traditore.



 C’è una parola nel Vangelo, che non spiega il mistero del male di Giuda, ma che ce lo mette davanti in un modo impressionante: “Satana lo ha occupato”. Ha preso possesso di lui, qualcheduno deve avervelo introdotto. Quanta gente ha il mestiere di Satana: distruggere l’opera di Dio, desolare le coscienze, spargere il dubbio, insinuare l’incredulità, togliere la fiducia in Dio, cancellare il Dio dai cuori di tante creature. Questa è l’opera del male, è l’opera di Satana. Ha agito in Giuda e può agire anche dentro di noi se non stiamo attenti.



Per questo il Signore aveva detto ai suoi Apostoli là nell’orto degli ulivi, quando se li era chiamati vicini: “State svegli e pregate per non entrare in tentazione”. E la tentazione è incominciata col denaro. Le mani che contano il denaro. Che cosa mi date? Che io ve lo metto nelle mani? E gli contarono trenta denari. Ma glieli hanno contati dopo che il Cristo era già stato arrestato e portato davanti al tribunale. Vedete il baratto!



 L’amico, il maestro, colui che l’aveva scelto, che ne aveva fatto un Apostolo, colui che ci ha fatto un figliolo di Dio; che ci ha dato la dignità, la libertà, la grandezza dei figli di Dio. Ecco! Baratto! Trenta denari! Il piccolo guadagno. Vale poco una coscienza, o miei cari fratelli, trenta denari. E qualche volta anche ci vendiamo per meno di trenta denari. Ecco i nostri guadagni, per cui voi sentite catalogare Giuda come un pessimo affarista.



 C’è qualcheduno che crede di aver fatto un affare vendendo Cristo, rinnegando Cristo, mettendosi dalla parte dei nemici. Crede di aver guadagnato il posto, un po’ di lavoro, una certa stima, una certa considerazione, tra certi amici i quali godono di poter portare via il meglio che c’è nell’anima e nella coscienza di qualche loro compagno. Ecco vedete il guadagno? Trenta denari!



Che cosa diventano questi trenta denari? Ad un certo momento voi vedete un uomo, Giuda, siamo nella giornata di domani, quando il Cristo sta per essere condannato a morte. Forse Lui non aveva immaginato che il suo tradimento arrivasse tanto lontano. Quando ha sentito il crucifigge, quando l’ha visto percosso a morte nell’atrio di Pilato, il traditore trova un gesto, un grande gesto. Va’ dov’erano ancora radunati i capi del popolo, quelli che l’avevano comperato, quella da cui si era lasciato comperare. Ha in mano la borsa, prende i trenta denari, glieli butta, prendete, è il prezzo del sangue del Giusto.



Una rivelazione di fede, aveva misurato la gravità del suo misfatto. Non contavano più questi denari. Aveva fatto tanti calcoli, su questi denari. Il denaro. Trenta denari. Che cosa importa della coscienza, che cosa importa essere cristiani? Che cosa ci importa di Dio? Dio non lo si vede, Dio non ci da’ da mangiare, Dio non ci fa’ divertire, Dio non da’ la ragione della nostra vita. I trenta denari. E non abbiamo la forza di tenerli nelle mani. E se ne vanno.



Perché dove la coscienza non è tranquilla anche il denaro diventa un tormento. C’è un gesto, un gesto che denota una grandezza umana. Glieli butta là. Credete voi che quella gente capisca qualche cosa? Li raccoglie e dice: “Poiché hanno del sangue, li mettiamo in disparte. Compereremo un po’ di terra e ne faremo un cimitero per i forestieri che muoiono durante la Pasqua e le altre feste grandi del nostro popolo”.



Così la scena si cambia, domani sera qui, quando si scoprirà la croce, voi vedrete che ci sono due patiboli, c’è la croce di Cristo; c’è un albero, dove il traditore si è impiccato. Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare.



 Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui.

Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda. Provate a confrontare queste due fini. Voi mi direte: “Muore l’uno e muore l’altro”. Io però vorrei domandarvi qual è la morte che voi eleggete, sulla croce come il Cristo, nella speranza del Cristo, o impiccati, disperati, senza niente davanti. Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda.



 Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni.



Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia. E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro. E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi amico.



La Pasqua è questa parola detta ad un povero Giuda come me, detta a dei poveri Giuda come voi. Questa è la gioia: che Cristo ci ama, che Cristo ci perdona, che Cristo non vuole che noi ci disperiamo. Anche quando noi ci rivolteremo tutti i momenti contro di Lui, anche quando lo bestemmieremo, anche quando rifiuteremo il Sacerdote all’ultimo momento della nostra vita, ricordatevi che per Lui noi saremo sempre gli amici.


Registrazione effettuata a Bozzolo – Giovedì Santo 1958

Da Qumran.net

martedì 18 marzo 2014

Pasqua è il passaggio dall’oscurità della morte alla vita nuova della Risurrezione.







Siamo in piena quaresima e quindi ben incamminati verso la Pasqua



  Riflessioni sulla Pasqua di don Silvio Carlin

 Siamo in piena quaresima e quindi ben incamminati verso la Pasqua nel tentativo di compiere quella conversione a cui eravamo stati invitati fin dal Mercoledì delle Ceneri…

…Celebrare la Pasqua, la  festa delle feste, è accogliere nella propria vita di credenti la grande verità della Risurrezione di Gesù. “Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede, inutile la nostra predicazione”, dice San Paolo.
Gesù il Messia è risorto ed è vivente per sempre in mezzo a noi.

Credo che solo al ripeterlo questo annuncio riempia il nostro cuore di una gioia incontenibile. Sapere che Gesù è vivo per sempre, che ha vinto la morte, è motivo di travolgente desiderio di cantare, di gioire, di gridare ad alta voce che la vita è bella, che tutto può cambiare.

Pasqua vuol dire passaggio.
Storicamente è la festa della primavera che vince il gelido inverno.
Biblicamente è il passaggio dall’umiliante schiavitù in terra straniera alla liberazione della terra promessa dove scorre latte e miele.
Cristianamente è il passaggio dall’oscurità della morte alla vita nuova della Risurrezione.

E per noi? Che cosa è questa Pasqua … che celebriamo?
Credo che possa  e debba essere il passaggio dalla paura, dall’incertezza, al coraggio di essere se stessi, di essere creature nuove, di vivere in una dimensione alta e larga senza sostare nei nostri quietismi, nei nostri sì… d’accordo, a cui si contrappongono i ma,  gli “aspettiamo”, vediamo …non c’è fretta!

E’ vero che nella società c’è tanta incertezza e tanta paura di esporsi, di decidere.
Ha paura il bambino di crescere, perché vorrebbe rimanere sempre tale, coccolato e spesso viziato.
Ha paura il giovane del giudizio degli altri, di rimanere solo, ha paura di scegliere e lascia che siano gli altri a farlo per lui. E allora diventa schiavo e sceglie un profilo basso di vita, fatto di poco impegno, di nessuna presa di posizione, di evasione. Qualche volta cede all’ alcol, alla droga, alla sessualità staccata dall’amore, alle scorciatoie per avere soldi e carriera: tutti compromessi giocati sulla felicità vera.

Ha paura la coppia di dare spazio alla vita perché fatica a far quadrare il bilancio e  una nuova creatura, che potrebbe aumentare la loro  felicità e rendere  più bello il mondo, viene mortificata.
Abbiamo paura tutti del dolore, della solitudine, di non essere amati e di non poter amare abbastanza, della morte e allora ci lamentiamo con tutti e per tutto, ci agitiamo gridiamo come se tutto dipendesse dagli altri, dalla società, da chi ci governa, dalle calamità… Anche noi cristiani più impegnati, abbiamo paura che Cristo ci chieda di più. Abbiamo paura di una vocazione in famiglia.  Abbiamo paura di un impegno più grande nella comunità.
Quasi che Cristo non fosse capace di darci molto  più di quanto riusciamo a fare noi, con i nostri piccoli passi.

Ma tutte queste paure sono state vinte a Pasqua! “Non abbiate paura sono Io!.. ci ripete Gesù - Io sono con voi sino alla fine del mondo! Io ho vinto il mondo..”
Il problema è tutto qui: rinnovare la nostra fede  nel Risorto e nella  potenza della sua Risurrezione….

Da DON BOSCO INSIEME  www.donboscoinsieme

L'amore vince la morte. Sia così per te, nella tua vita».



Pasqua: Il giorno che celebra la vittoria dell'amore

di enzo bianchi 


In questi giorni di Pasqua emerge con forza la singolarità del cristianesimo tra tutte le religioni, ma emerge con forza anche ciò che nella fede cristiana appare uno «scandalo» e una «follia» per gli uomini religiosi e per quelli che si ritengono autosufficienti nel loro pensare. Va riconosciuto: le altre feste cristiane, con la loro aura poetica, sono vissute più o meno da tutti, ma la Pasqua appare una memoria e una festa irriducibile alla mentalità e al sentire comune. Che cosa rivivono i cristiani? Innanzitutto leggono e rileggono una storia di passione e di morte. Quella di Gesù di Nazaret, un uomo che - ci dicono quelli che sono stati coinvolti nella sua vita, che hanno vissuto e mangiato con lui - passava per le città e i villaggi della terra di Israele facendo il bene, curando, guarendo, consolando tutti quelli che incontrava.
Gesù parlava anche di un Dio che appariva «altro» per gli uomini religiosi del suo tempo, rendeva «vangelo», buona notizia, quel Dio al quale gli uomini avevano finito per dare immagini perverse proiettandovi i loro desideri mondani. Egli annunciava un Dio il cui amore non deve essere mai meritato, un Dio che ci ama sempre e gratuitamente, un Dio che non castiga ma perdona quelli che cadono nel male, un Dio che chiede riconciliazione e amore reciproco tra gli uomini, un Dio che vuole riconoscimento e culto come mezzi in vista dell'amore, perché egli stesso è amore. Gesù, inoltre, aveva parole durissime per i detentori del potere religioso, sacerdoti e dottori della legge, perché costoro si rendevano esenti dai pesi che facevano portare agli altri, perché cercavano di apparire esemplari senza mai tentare di esserlo realmente.

Gesù era scomodo, e per questo ebbe nemici, calunniatori che lo chiamavano falso profeta e indemoniato. Questi nemici riuscirono, mediante un illegale processo-farsa, a condannarlo come bestemmiatore di Dio e convinsero il potere politico che Gesù era anche un pericolo per l'autorità di Cesare. E così il potere religioso e quello politico, concordi tra loro, lo condannarono alla morte in croce, sentenza eseguita il 7 aprile dell'anno 30 della nostra era. Quel giorno Gesù in croce appariva come un maledetto da Dio e dagli uomini per i credenti giudei, come un uomo nocivo per l'impero agli occhi dei romani: nudo, nella vergogna, morì senza difendersi, senza rispondere alla violenza, amando e perdonando «fino alla fine», come aveva vissuto. La morte di Gesù è scandalosa, ignominiosa. Come si può credere a un uomo che fa questa fine, a un uomo condannato dai legittimi poteri religioso e civile? Come si può credere che un tale uomo sia stato inviato da Dio? Che Dio è quello che invia un uomo che si dice suo Figlio e poi fa quella fine? Non è credibile! Ecco «lo scandalo della croce», come lo definisce l'apostolo Paolo. E si badi bene: anche alcuni cristiani hanno fatto fatica ad accettare questa fine.

È infatti più facile accettare un Dio che vince, trionfa, regna, piuttosto che un Figlio di Dio che muore in croce. Sicché alcune chiese ammettevano che Gesù fosse Figlio di Dio ma non che potesse fare quella fine, e per questo costruirono teologie secondo le quali un altro era stato crocifisso al posto di Gesù, perché egli non poteva morire in quel modo... Di queste credenze si trovano tracce nel Corano, là dove sta scritto: «Non l'hanno ammazzato, non l'hanno crocifisso, perché Gesù fu sostituito da uno che gli rassomigliava» (Sura IV,157). Eppure i cristiani confessano la loro fede nel Crocifisso, e per questo la croce è il segno di Cristo, al quale essi guardano sapendo che, se la negano, non sono più cristiani. Ecco perché il Crocifisso non può essere ridotto a un simbolo culturale, come propone qualcuno che non sa cosa sia il cristianesimo né conosce le lettere di Paolo. Ma quest'uomo Gesù, morto in croce e sepolto in una tomba al tramonto di quel giorno vigilia della Pasqua, «non poteva restare preda della morte» (At 2,24), dice Pietro.

E infatti quando le sue discepole e i suoi discepoli si recano alla tomba all'alba del primo giorno della settimana non trovano più il cadavere di Gesù: la tomba è vuota! Fin qui giunge la storia, che nessuno può negare. Ma di fronte alla tomba vuota sorgono delle domande: il corpo morto di Gesù era stato rubato da qualcuno? Gesù non era veramente morto ed era fuggito? Dio era intervenuto per dire la sua parola definitiva su Gesù? Domande che ci sono testimoniate dagli stessi vangeli, i quali danno anche una risposta. I vangeli attestano che quelli che erano stati con Gesù alcuni anni, i suoi discepoli e testimoni, hanno cominciato a dire che Gesù era vivente, che il Padre, Dio, lo aveva richiamato dai morti, che essi l'avevano visto accanto e in mezzo a loro nella vita quotidiana. L'avevano visto con altri tratti fisici, con un altro corpo, ma i gesti da lui compiuti erano gli stessi: accompagnava i viandanti, consolava chi piangeva, spezzava il pane, offriva da mangiare, dava fiducia e perdono anche a chi l'aveva rinnegato e abbandonato nell'ora della tenebra e della passione.

Ecco, i cristiani ricordano, rivivono, si ridicono l'un l'altro semplicemente questo: l'amore vissuto da Gesù ha vinto la morte, il suo amore ha vinto l'odio e l'inimicizia. Sì, «Dio nessuno l'ha mai visto» - e nella cultura odierna Dio non gode di buona fama - «ma Gesù ce lo ha raccontato» (Gv 1,18). Gesù era umanissimo e ciò che aveva di eccezionale non era di ordine religioso ma umano. È con la sua umanità che egli, il Figlio di Dio e la Parola diventata uomo come noi, ci ha portato a Dio. Dopo la vita, morte e resurrezione di Gesù per un cristiano augurare «buona Pasqua» significa dunque affermare: «Vorrei dirti che l'amore vince la morte. Sia così per te, nella tua vita». 


domenica 16 marzo 2014

IL SEGNO DELLA CROCE: è un gesto molto semplice, ma di una ricchezza infinita...





Il Segno della Croce


È un gesto molto semplice, ma di una ricchezza infinita, di una profondità immensa, con un valore altamente teologico. Così iniziamo e concludiamo, nel nome della SS. Trinità l’azione liturgica più grande che è la Santa Messa e così gli altri sacramenti e le comuni preghiere.

E il segno della nostra Fede che può combattere le forze del Male; è il segno con cui possiamo dichiararci vincitori sulla Morte, come il Cristo sulla Croce.

E il segno che ancora oggi dona a Dio i bianchi gigli della purezza e i rossi petali dei martiri e di tutti coloro che hanno osato dire e fare il Segno della Croce, in una città tumultuosa o nel deserto arido, in famiglia o sul lavoro in patria o in terra straniera.

E il segno che ci ricorda una Croce su cui Dio Figlio ha voluto innalzarsi, nel silenzio di un Dio Padre dolorante sulle ferite del Suo Agnello.

Il Segno della Croce è il simbolo della vittoria del Cristo sul Maligno, del bene sul male, dell’amore sull’odio, della carità amorevole sull’avidità sfrenata, della povertà di spirito: sull’avidità, della mitezza sull’ira, della speranza sulla disperazione.

Il segno della Croce è la forza che caccia Satana nei suoi antri oscuri; è la liberazione dell’anima avvolta dalle spire tenebrose del serpente tentatore, luccicante di oro e di potere.

E il gesto che ridona la Pace ad un’anima buia e tempestosa, comunicandole il dolce leggero zefiro dello Spirito e il fragrante profumo della Virtù, la gioia del perdono.

Dalla nascita alla morte, il Segno della Croce accompagna l’uomo nel suo lungo e difficile cammino, in continua salita, piegato sotto il fardello dei dolori, con qualche rapido squarcio di cielo azzurro.

Con il Segno della Croce il Sacerdote accoglie nella comunità dei credenti il nuovo piccolino presentato al fonte battesimale, sotto lo sguardo dolcissimo di parenti ed amici, accompagnato da angeli inneggianti alla Gloria di Dio.

Il Segno della Croce arricchisce, completa, racchiude in un cerchio perfetto la celebrazione della Prima Comunione e poi della Cresima, confermando il cristiano quale “vero soldato di Cristo”.

Il Segno della Croce unisce nel sacramento del matrimonio l’unione indissolubile di due sposi che giurano amore eterno a Dio e a sé stessi, è il segno che accompagna il loro percorso, giorno dopo giorno, arricchito dalla preghiera e dalla parola di Dio.

Una famiglia cristiana deve crescere nel Segno della Croce, ed in questo bel giardino irrorato dall’Amore, sbocciano talvolta fiori rarissimi. Giovani bruciati dal Fuoco della Carità, eletti e prescelti sin dall’eternità, “abbracciano” la Croce e nel segno di quella Croce, simbolo di Morte e di Vita, donano la loro vita in monasteri e in conventi, pregando ed offrendo per i “lontani” e per i “persi”.

Nel Segno della Croce, nel deserto di un eremo o nella ricca metropoli, questi consacrati si immolano vittime innocenti come il Cristo; bianche creature si chinano su malati e su moribondi con un Segno della Croce sulla fronte e santi Ministri di Dio insegnano ai fanciulli il gesto più bello.

Il Segno della Croce accompagna alla dimora eterna chi al tramonto della vita ha paura ad affrontare il grande passo.

Nel Segno sacro della Croce l’uomo trova la forza di abbandonare i suoi cari, di sopportare il dolore e di morire alla vita terrena, per rinascere alla vita eterna.

Nel Segno della Croce i familiari, possono sopportare amare lacrime di dolore, che rinasceranno in dolci lacrime di rimpianto e di ricordi, sfocianti in un’unica lacrima finale di Speranza certa nella Risurrezione.

http://www.colledonbosco.it
(Teologo Borèl) Febbraio 2014 - autore: Chiara B

domenica 2 marzo 2014

"Se mi volete bene, non ditemi sempre 'sì'!". ( genitori e figli)




COME DON BOSCO
di PINO PELLEGRINO

Le tredici mosse dell'arte di educare


 
 Saper dire 'no'!

Nella serie delle mosse fondamentali dell'arte di educare non può mancare la mossa del saper dire 'no'! Ne siamo così convinti che ogni figlio dovrebbe dire ai genitori: "Se mi volete bene, non ditemi sempre 'sì'!".

QUATTRO MOTIVI

I 'no' ci vogliono almeno per quattro motivi.
Intanto perché danno sicurezza.
Avvertono il figlio che vi sono dei limiti, dei paletti: cose che si possono fare, altre che sono proibite. Ora, tutto ciò tranquillizza: toglie dall'insicurezza del non saper come agire, cosa fare.

I 'no' irrobustiscono l'io.
Senza nessuna esperienza dei 'no', al primo scoglio il ragazzo rischia il naufragio. È questa una delle ragioni fondamentali della necessità del 'no'. Non è forse vero che abbiamo figli sempre più friabili, ragazzi con la grinta della mozzarella? È tempo di smetterla d'essere troppo arrendevoli!

I 'no' avvertono che vi è un'autorità.
Una cosa è assodata: il rapporto educativo deve essere asimmetrico.
In fondo è il figlio stesso a volerlo: a lui serve una persona autorevole, non un amico o un camerata. Il 'no' detto con arte è una delle più chiare espressioni dell'autorevolezza.

Finalmente i 'no' rendono più simpatico il figlio.
Un ragazzo al quale è sempre permesso di fare quello che gli pare e piace, sarà incapace di adattarsi agli altri, potrà diventare un incivile, un rompiscatole, un piantagrane.
Insomma è evidente l'importanza del 'no'. Importanza che ci impegna a sfruttarlo al meglio. 


LO STILE DEL 'NO'
Perché il 'no' sia utile, deve essere detto con stile, deve, cioè avere alcune caratteristiche.
Non urlato.
Se gridato, il 'no' potrebbe essere interpretato come dipendente dal nostro umore del momento e non già come una decisione presa per impedire qualcosa che, comunque, non si deve compiere, indipendentemente dal nostro 'raptus'.

Dosato.
Quando i 'no' sono troppo frequenti perdono efficacia, come le leggi. Perché in Italia le leggi si infrangono così di frequente? Una ragione è anche questa: perché sono troppe. Mentre in Francia ed in Germania sono sui settemila, da noi superano le centocinquantamila! Oltre a ciò, è bene che il 'no' sia dosato perché il censurare troppo i figli rischia di frustrare la loro creatività e di renderli più insicuri.

Giustificato.
Il figlio deve sapere che le nostre proibizioni hanno una ragione. Giustificando i 'no' lo illuminiamo, lo orientiamo, lo facciamo crescere. È chiaro che la motivazione deve rispettare la maturazione raggiunta dal figlio. Al piccolo di tre anni diremo: "Non prendere il coltello: taglia!". Al ragazzo adolescente tentato dall'alcol spiegheremo che dove entra il bere esce il sapere; diremo che solo chi è poco saggio si lascia imbottigliare dal vino! 


QUALI 'NO'?
È impossibile, in ogni caso, fare l'elenco completo dei 'no' da dire ai figli. Ci limitiamo ai quattro che ci sembrano i più urgenti.
No alle mode.
Dove è scritto che tutti i ragazzi debbano avere lo stesso zainetto, che a Natale tutti debbano ricevere montagne di regali? Ha tutte le ragioni lo psichiatra Fulvio Scaparro ad essere così deciso: "Mamme e papà, imparate dai salmoni che vanno contro corrente! Liberatevi dai copioni!".

No al servizio.
Perché la mamma deve continuare ad insaponare il figlio, ad allacciargli le scarpe ed il papà a sbucciargli la mela? Qualche anno fa il sociologo Francesco Alberoni ha lanciato un messaggio: "Basta con i vizi ai figli! Se la cavino da soli!". Tutti gli hanno battuto le mani. E se fossimo d'accordo anche noi?

No al cuore di panna e all'indulgenza plenaria.
Concedere tutto al figlio è tradirlo: non si può vivere in pantofole! Concedere tutto al figlio è preparare un infelice: "Il passero ubriaco trova amare anche le ciliegie", recita il proverbio.

No alle continue richieste.
"Me lo comperi?". "Voglio questo!". "Dammi quello"...
Ad un certo punto bisogna dire 'No!'. "Ne hai abbastanza!". "È inutile insistere!". "Sarebbe troppo". "Questo non è per nulla necessario!"... Parole sapienti. Parole benefiche. Parole che forgiano un uomo capace di stare in piedi anche quando la vita mostra i denti. 



CHIARO E TONDO!


Ormai, dopo tanta pedagogia permissiva, tutti ammettono che i 'no' sono preziosi.
Qualora sparissero, non succederebbero che dei guai.
"I 'no' aiutano a crescere" ci manda a dire la psicologa Maria Luigia Pace.
"Un bambino abituato a delle regole è sicuramente un bambino, un ragazzo, un adolescente più capace di far fronte alle difficoltà", ci assicura lo psichiatra Giovanni Bollea.
Al contrario, un bambino abbandonato a se stesso diventa "un rompiscatole, un adulto instabile, nevrotico, infantile" (Silvano Sanchioni, assistente sociale); "un bambino non abituato, fin dall'inizio della vita, a limitarsi, può diventare un piccolo despota" (Renata Rizzitelli, psicologa).
Che cosa vogliamo di più per convincerci che i 'no' sono un pilastro della crescita, come, d'altronde, i 'sì' di cui parleremo il prossimo mese?




CITAZIONI D'AUTORE

"Un genitore deve saper dire no ad un figlio, se gli vuole bene, altrimenti con 'fai come ti pare' si rischia di togliergli i necessari anticorpi, psicologici. Le regole, i no sono come i paracarri ai lati della strada, sono punti di riferimento. Non debbono cambiare di posizione, non possono decidere di esserci o non esserci.
Che patetici quei genitori che fanno gli amici dei figli. Un padre deve essere padre, altrettanto una madre; è già così difficile fare i genitori, ci mettiamo a fare anche gli amici, per confondere loro ancor più le idee?
" (Paolo Crepet, psichiatra).

• "Sono contento di non essere stato viziato. Considero una sventura avere dei privilegi nell'infanzia. La mia infanzia è stata dura, non ho conosciuto il benessere, e trovo che nascere in una situazione di sana povertà sia il miglior bagaglio che si possa dare ad un bambino" (Carlo Rubbia, premio Nobel per la Fisica, 1984).

• "A furia di spianare la strada al bambino si rischia di esporlo a dei contraccolpi emotivi il cui esito è sempre più spesso la depressione" (Massimo Gramellini, scrittore). 

Da Bollettino Salesiano Febbraio 2014