domenica 17 febbraio 2013

Una lettera, con affetto e amore, al Papa Benedetto XVI che ci lascia

Pubblicato dal quotidiano "L'avvenire" di qualche giorno fa, propongo questo articolo come riflessione sulla decisione del Santo Padre Benedetto XVI, di lasciare di condurre la barca di Pietro per il bene della Chiesa. Avrà avuto i suoi buoni motivi per farlo. Riflettiamo, stiamogli vicino con l'affetto che sempre gli abbiamo dimostrato, preghiamo per Lui affinché ci possa di tanto in tanto ancora illumimarci con i suoi scritti, la sua esperienza di teologo, padre e pastore.




Caro Papa, 



manca un accento all’ultima lettera di que­sto tuo nome, Papa, e verrebbe fuori un’altra pa­rola. La parola che ogni figlio pronuncia migliaia di volte nella vita e che un figlio di Dio ha la for­tuna di pronunciare molte più volte perché, al­la fine, la vita cristiana è imparare a dire abbà, papà, a Dio. 



Alla notizia della tua rinuncia ho avuto paura. Ho provato lo stesso dolore per la morte di Gio­vanni Paolo II: allora avevo 28 anni e mi sentii orfano, piansi come chi ha perso un padre.

Lunedì mi è successo lo stesso. Mi sono sentito orfano. Tu avevi deciso di non essere più Papa. Un altro padre mi veniva meno. È il dolore di un figlio che ha ricevuto moltissimo. Ho seguito il tuo pontificato sin dal momento in cui ti sei af­facciato per la prima volta dal balcone (abitavo a Roma allora). Ho letto i tuoi scritti, mi sono nu­trito delle tue parole sempre profonde e stra­namente semplici per un professore di teolo­gia, perché fondate sul rapporto vero con Dio (quanto gelo nelle parole di alcuni pastori che capita di ascoltare...).

In questi anni in cui la fede è spesso messa alla prova, dileggiata, fraintesa, tu hai fatto da para­fulmine a molte critiche. Le hai prese tutte su di te. Non te ne importava niente di essere colpi­to. Sono beati quelli che vengono colpiti a cau­sa di Cristo e chissà quanta della sporcizia che c’è nella Chiesa è stata gettata su di te per il fat­to di essere quel padre di famiglia che è il Papa. Tu hai sempre dimostrato e chissà con quanto dolore, dal discorso di Ratisbona a quello sul matrimonio, che l’unico consenso che ti inte­ressa è quello di tuo Padre Dio, cioè della verità, del logos.

Per questo ho avuto paura quando hai annunciato la tua rinuncia. Sul momento mi è sembrato un tirarsi indietro. Se ti tiri indietro anche tu, che sei il Papa, che fine facciamo noi? Ho ripensato a una tua frase che mi porto nel cuore: «Fedeltà è il nome che ha l’amore nel tempo». Me la ricordo tutte le volte che il mio e l’altrui amore è messo alla prova e devo ag­grapparmi con tutte le forze all’Amore che muove tutti gli altri amori, oltre che il sole e le altre stelle. In questi anni la mia fede si è raffor­zata grazie a quel logos cortese, fermo e caldo che tu sai infondere alle parole che usi, come (tanto per fare un esempio) queste che ho let­to qualche giorno fa: «Dio, con la sua verità, si oppone alla molteplice menzogna dell’uomo, al suo egoismo e alla sua superbia. Dio è amo­re. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi per andare al di là di se stessi. L’amore non è un romantico sen­so di benessere. Redenzione non è wellness, un bagno nell’autocompiacimento, bensì una li­berazione dall’essere compressi nel proprio io. Questa liberazione ha come costo la sofferen­za della Croce». Ripensando alla tua frase, leggendo queste pa­role, le tue 'dimissioni' mi sembravano in­comprensibili e mi hanno gettato nello sgo­mento.

Mi sono sentito solo. A che serve difen­dere la propria fede se poi anche il Papa si tira indietro. Poi a poco a poco l’emotività ha la­sciato lo spazio al logos appunto, alla verità, a Cristo, e una grande pace è tornata nel cuore. Dovevo andare oltre il codice di interpretazio­ne soggettivo, emotivo, mondano. Rinunciare rappresenta un fallimento per il mondo, è un gesto di debolezza per il mondo, nel quale si 'è' solo se ci si afferma, a ogni costo. La logica del­la debolezza non è del mondo. Del mondo è la logica del potere e dell’egoismo. Per questo il tuo gesto è un gesto di libertà dall’io e non di fu­ga da Dio, nel quale ti vuoi rifugiare del tutto per continuare a sostenere la Chiesa più e meglio.

Con questo gesto fai trionfare una logica diver­sa, un logos diverso. Quello di chi sa che la sua preghiera silenziosa vale tanto quanto la sua a­zione, e lascia quest’ultima a chi può meglio di lui portarla avanti. Doveva suonare allo stesso modo, fastidiosa e inspiegabile, la frase di Cri­sto ai suoi: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro consolatore».

Anche Cristo sembra tirarsi indietro, ma così vince: lascia lo spazio alla potenza dello Spirito, non si lascia legare neanche dalla sua condizione umana, dà tutto, anche quella, si espropria di tutto se stesso, perché come tu hai spiegato nel tuo libro più bello 'essere cristiani' è 'essere per'. Egli pone nelle mani dei suoi il compito di continuare le sue opere e afferma che ne faranno anche di più grandi delle sue. Ti ringrazio, caro Papa, per tutto il logos che ci hai donato e ci donerai sino al 28 febbraio, da Papa, ma anche per il logos che ci donerai dopo, nel silenzio che il mondo già chiama sconfitta, sotterfugio, fuga, e che è invece vittoria. Non mi sento più solo, perché ancora una volta mi hai aiutato a guardare all’unica cosa che conta, l’unica di cui c’è bisogno, il Logos stesso. Una sola cosa ti chiedo. Non dare le dimissioni dalla scrittura. Continua a nutrire la nostra fede con il tuo logos. Non farlo sarebbe dare le dimissioni da un talento e il Vangelo parla chiaro in merito...
Con affetto



Alessandro D’Avenia
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