martedì 27 marzo 2012

Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi,di don Tonino Bello





Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato,
vennero al sepolcro al levar del sole. Esse dicevano tra loro:
"Chi ci rotolerà via il masso all’ingresso del sepolcro?".
Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via,
benché fosse molto grande.
(Mc 16, 2-4)


 «“Ho desiderato ardentemente di celebrare questa Pasqua con voi, di mangiare questa Pasqua con voi”. 

Sono le parole che Gesù disse prima dell’ultima cena proprio nel Giovedì Santo. E anch’io ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi; e Gesù dice “prima che io me ne vada”. Ma io non so se me ne andrò, chissà come piacerebbe a me, l’anno prossimo, di poterci trovare ad una solenne smentita, e poter dire: “guarda, ti ricordi che differenza?” e allora renderemmo grazie al Signore. Per adesso, via, andiamo avanti, con grande gioia.

Io ho voluto prendere la parola per dirvi che non bisogna avere le lacrime, perché la Pasqua è la Pasqua della speranza, della luce, della gioia! Dobbiamo sentirlo! Io lo sento veramente, perché è così, perché il Signore è risorto, perché è al di sopra di tutte le nostre malattie, le nostre sofferenze, le nostre povertà; è al di sopra della morte. Quindi ditelo! Ecco, aggiungo un altro compito a casa: ognuno di voi a qualcuno, a qualche parente che non sta bene, a qualche ammalato. Ditelo: che stai lì…? Lo sai che c’è Gesù vicino a te!? Certo, chi sta a letto la luce del sole domani la vedrà attraverso le finestre – Io, oggi, ho ringraziato il Signore e ho detto: “Da quanto tempo non vedo il sole!” – Comunque, anche se non vedrete la luce del sole direttamente, e la vedrete attraverso le finestre – e gli alberi accarezzeranno le vostre porte e sentirete il canto degli uccelli da fuori – non importa, non importa! 

Ci sarà il tripudio, il tripudio pasquale, la gioia pasquale, che penetra come la luce sotto le fessure della porta a raggiungere tutti; e raggiunga soprattutto voi, che godete di buona salute, che potete aiutare gli altri, che date una mano a coloro che soffrono.

Voglio dire: mi raccomando, domani, non contristate - per nessuna amarezza, di casa vostra o per qualsiasi altra amarezza – non contristate la vostra vita! – “Al risorto non è lecito stare se non in piedi, in piedi!” - lo dicevano i padri della Chiesa.
Vi faccio tanti auguri, tanti auguri di speranza, tanti auguri di gioia, tanti auguri di buona salute, tanti auguri perché, a voi ragazzi, ragazze, i sogni fioriscano tutti. Tanti auguri perché nei vostri occhi ci sia sempre la trasparenza dei laghi e non si offuschino mai per le tristezze della vita che sembra ci sommergano.
Vedrete come, fra poco, la fioritura della primavera spirituale inonderà il mondo, perché andiamo verso momenti splendidi della storia, non andiamo verso la catastrofe. Ricordatevelo! 

Non sono allucinazioni di uno che delira per la febbre. E’ vero, andiamo in alto, andiamo verso punti risolutori della storia, verso il “punto Omega” Gesù, che è il “punto Omega”, cioè la “zeta”. Potete dirlo… L’ultimo punto dell’alfabeto. In Italiano è “Zeta”, in latino è “Zeta”, in greco è “Omega”, in ebraico “Tau”; il “Tau”, che molti di voi hanno, è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico. E noi andiamo verso l’ultima lettera dell’alfabeto, non verso la fine, ma verso l’inizio! Quindi, gioite! 

Il Signore vi renda felici nel cuore, le vostre amicizie siano sincere. Non barattate mai l’onestà con un pugno di lenticchie. Poi vorrei dirvi tante cose, soprattutto vorrei augurarvi la pace della sera, quella pace che si sentiva un tempo quando ci si ritirava vicino al focolare. La pace della sera, quella che possiamo sentire anche adesso, se noi recideremo un pò dei nostri impegni così vorticosi, delle nostre corse così affannate.
Coraggio! Vogliate bene a Gesù Cristo, amatelo con tutto il cuore, prendete il Vangelo tra le mani, cercate di tradurre in pratica quello che Gesù vi dice con semplicità di spirito. 

Amate i poveri perché è da loro che viene la salvezza, ma amate anche la povertà. Non arricchitevi, non arricchitevi! Non vale. Nel gioco della vita è sempre perdente chi vince sul gioco della borsa.
Vi abbraccio tutti, ad uno ad uno, e in modo particolare, dal momento che avete fatto questo sacrificio stamattina, voi della mia comunità parrocchiale, a partire da Don Gigi, il parroco della mia comunità parrocchiale, e voi delle comunità vicine…
 Grazie per questa vicinanza, che mi fa sentire il vostro calore, il vostro affetto. Io, per parte mia, non posso fare altro che ripagarvi con la mia preghiera e col mio sacrificio.

Ai miei sacerdoti vorrei ribadire tutto quello che nell’Omelia è stato detto, ma ad uno ad uno, nessuno escluso, neppure qualcuno col quale ci può essere stato qualche motivo di screzio, perché c’è sempre.
Vorrei dire a tutti, ad uno ad uno, guardandolo negli occhi: ti voglio bene!
Così come, non potendo adesso stringere la mano di tutti, devo ritirarmi, e, quindi, mi dispiace, di non poter dare la mano a tutti, però, venendo vicino a voi, così, personalmente voglio dire:
Ti voglio bene!
Auguri di Buona Pasqua!»

giovedì 22 marzo 2012

Gli uni i piedi degli altri… di don Tonino Bello

 

Non c’è un’eucarestia dentro,
e una lavanda dei piedi fuori.
L’una e l’altra sono operazioni complementari
da esprimere ambedue negli spazi
dove i discepoli di Cristo si radunano e vivono.



Carissimi,
ve lo confesso: è stata una scoperta pure per me.
Non avevo mai dato troppo peso, infatti, a quella espressione pronunciata da Gesù dopo che ebbe finito di lavare i piedi ai discepoli: «anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri».
Gli uni gli altri. A vicenda, cioè scambievolmente.
Questo vuol dire che la prima attenzione, non tanto in ordine di tempo quanto in ordine di logica, dobbiamo esprimerla all’interno delle nostre comunità, servendo i fratelli e lasciandoci servire da loro.

Spendersi per i poveri, va bene.
Abilitarsi come Chiesa a lavare i piedi di coloro che sono esclusi da ogni sistema di sicurezza e che sono emarginati da tutti i banchetti della vita, va meglio.
Ma prima ancora dei marocchini, degli handicappati, dei barboni, degli oppressi, di coloro che ordinariamente stazionano fuori del cenacolo, ci sono coloro che condividono con noi la casa, la mensa, il tempio.
Solo quando hanno asciugato le caviglie dei fratelli, le nostre mani potranno fare miracoli sui polpacci degli altri senza graffiarli. E solo quando sono stati lavati da una mano amica, i nostri calcagni potranno muoversi alla ricerca degli ultimi senza stancarsi.
Della lavanda dei piedi, in altri termini, dobbiamo recuperare il valore della reciprocità. Che è l’insegnamento più forte nascosto in quel gesto di Gesù.

Finora forse ne abbiamo fatto un po’ troppo un esercizio eroico di conquista. L’abbiamo scambiato per uno stile d’accaparramento di benevolenze mondane. L’abbiamo inteso come un espediente missionario capace, se non di provocare la fede, almeno di vincolare le emozioni dei cosiddetti lontani.
Un bel gesto, insomma. Di quelli che fanno immagine. Soprattutto per quel gioco dei contrasti. Perché quanto più Gesù sprofonda fino a terra, tanto più emerge l’altezza del suo messaggio.

Invece, con quella frase «gli uni gli altri», espressa nel testo greco da un inequivocabile pronome reciproco, siamo chiamati a concludere che la brocca, catino e asciugatoio, prima che essere articoli di esportazione, vanno adoperati all’interno del cenacolo. Non vanno collocati fuori della chiesa, quasi per essere offerti come ferri del mestiere a coloro che, terminate le loro liturgie, escono nel mondo.
No. Non c’è un’eucarestia dentro, e una lavanda dei piedi fuori. L’una e l’altra sono operazioni complementari da esprimere ambedue negli spazi dove i discepoli di Cristo si radunano e vivono. Fuori, semmai, c’è da portare la logica di quei doni: frutti che maturano in pienezza solo al calore della serra evangelica.
In conclusione, brocca, catino e asciugatoio devono divenire arredi da risistemare al centro di ogni esperienza comunitaria. Con la speranza che non rimangano suppellettili semplicemente ornamentali. Che cosa significa tutto questo per noi?

Che, ad esempio, un sacerdote difficilmente potrà essere portatore di annunci credibili se, nell’ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri, e a lasciarsi lavare i suoi da ognuno dei confratelli. Anzi, c’è di più o di peggio. E l’intero presbiterio che manca di credibilità, se nel suo grembo serpeggia il rifiuto, o il riserbo sdegnoso, o il fastidio, a tal punto che i piedi ognuno se li deve lavare per conto suo.
Non si tratta di essere mondi, cioè puri. Anche gli apostoli dell’ultima cena lo erano: «voi siete mondi» aveva detto Gesù. Il problema è essere servi. Perché gli uomini accettano il messaggio di Cristo, non tanto da chi ha sperimentato l’ascetica della purezza, quanto da chi ha vissuto le tribolazioni del servizio.
Altro che gesto sentimentale, quello di Gesù, da incorniciare magari nell’album dei buoni esempi!

La logica della lavanda dei piedi è eversiva. A tal punto, che grida all’ipocrisia quando, in una associazione ecclesiale lacerata dalle risse e dilaniata dalle rivalità, si pretende di organizzare il pediluvio alla gente.
Ma a chi andiamo a raccontarla!
Il servizio agli ultimi che stanno fuori non purifica nessuno, quando si salta il passaggio obbligato del servizio agli ultimi che stanno dentro. Anzi si ritorce come condanna perfino su chi crede che gli basti la riconciliazione procuratagli dai sacramenti, quando poi snobba quella grande riconciliazione con la vita che si raggiunge lavando i piedi del prossimo più prossimo.

Gli uni gli altri. A partire dalle famiglie. Che non possono dirsi cristiane se non assumono la logica della reciprocità.
Perché, se il marito smania di lavare i piedi ai tossici, la moglie si vanta di servire gli anziani, e la figlia maggiore fa ferro e fuoco per andare nel terzo mondo come volontaria, ma poi tutti e tre non si guardano in faccia quando stanno in casa, la loro è soltanto una contro testimonianza penosa. Che danneggia perfino i destinatari di un servizio apparentemente così generoso.

Ce n’è abbastanza perché la ripetizione rituale della lavanda dei piedi che, tra la commozione generale, celebreremo la sera del giovedì santo, ci metta nell’animo una voglia struggente di servizio, di accoglienza, e di pace.
Verso tutti. A partire dai più vicini.
E ci mandi in crisi, più che mandarci in estasi.
Perché, visto che siamo così lenti a convertirci, quella brocca è esposta al sacrilegio non meno della stessa eucarestia.
Vi saluto
don Tonino Bello

lunedì 19 marzo 2012

Il legno della croce,legno del fallimento...


U n a   c r o c e...



Il legno della Croce,
quel "legno del fallimento",
è divenuto il parametro vero
di ogni vittoria.
Gesù ha operato più salvezza
con le mani inchiodate sulla Croce
che con le mani stese sui malati.

Donaci, Signore,
di non sentirci costretti
nell'aiutarti a portare la Croce.
Aiutaci a vedere
anche nelle nostre croci
un mezzo per ricambiare
il tuo amore;
aiutaci a capire
che la nostra storia crocifissa
è già impregnata di risurrezione.

 
Se ci sentiamo sfiniti, Signore,
è perché, purtroppo,
molti passi li abbiamo consumati
sui viottoli nostri e non tuoi,
ma proprio i nostri fallimenti
possono essere la salvezza
della nostra vita.
La Pasqua è la festa
degli ex delusi della vita,
nei cuori, all'improvviso,
dilaga la speranza.
Cambiare è possibile,
per tutti e sempre.

Tonino Bello

martedì 13 marzo 2012

«Ho abortito, ora mi fido della vita»


Se la mia vita avesse una seconda edizione, come vorrei correggere le bozze… (Iohn Clare)




 Da Lettere al direttore, L’avvenire del 5 febbraio 2012        


«Ho abortito, ora mi fido della vita»

Caro direttore,
vorrei raccontare la mia storia per tutti i bimbi mai nati e le loro mamme. Sono una mamma di 44 anni; ho due bimbi piccoli. Quando avevo 30 anni ho praticato l’aborto volontario. Non ho preso questa decisione per mancanza di mezzi economici o perché straniera; sono italiana e provengo da una famiglia come tante. La mia povertà esisteva, ma era di natura spirituale e di valori. Oggi so che quella decisione – cioè il no alla vita – la presi chissà quanto tempo prima, forse da bambina. La mancanza di fiducia in me stessa e carenze affettive irrisolte hanno messo a nudo la mia anima fragile e mi hanno fatto credere che non sarei stata capace di accogliere, accudire e crescere una creatura indifesa. Mi sono spaventata al pensiero di un bambino e ho preferito "eliminare il problema", in fretta e da sola. Non mi sono rivolta ai Centri di aiuto alla vita né a nessun altro; la mia superbia e la paura mi hanno impedito di condividere i miei pensieri e di chiedere aiuto. Negli anni successivi, ho cominciato a capire il grande inganno di quei pensieri e il grave errore commesso. Eliminando il problema, in fretta, avevo ucciso anche me stessa. Ho provato un grande vuoto e poco alla volta, ma inesorabilmente, ho preso coscienza della mia disperazione, insieme ai perché. Grazie al sostegno psicologico e all’aiuto di un sacerdote, ho fatto spazio al mio vissuto e ho curato le mie ferite, che ora guardo con compassione e benevolenza. Sono stata aiutata a guardare in faccia il mio dolore, le mie sofferenze e il rimorso, liberandomi dalle catene del peccato. Sono sprofondata all’inferno e forse proprio attraverso il sacrificio di questa esperienza sono riuscita a generare una nuova persona: me stessa. Ci sono voluti anni, tanti anni e ancora oggi il pensiero di non potere stringere la mia creatura tra le braccia per mia scelta mi addolora, ma almeno riesco a pensarlo e a pregare per lei senza stare troppo male. Riesco a trovare il coraggio di scrivere queste righe. Oggi so di avere girato le spalle al grande amore di Dio per me e al suo progetto di vita e me ne pento. Questo pentimento non riporta in vita mio figlio – e non cambia niente del mio passato – ma riesce a farmi accettare il dolore profondo che mi accompagna. La Chiesa condanna il peccato e oggi so perché; il peccato distrugge, danneggia chi lo compie, ponendolo in una condizione di schiavitù e sofferenza inimmaginabili. Da sola non sarei riuscita a trovare la forza di andare avanti e rinascere e per questo ringrazio Dio Padre e le persone che mi ha messo sulla strada, che mi hanno capito e teso la mano, senza giudicare. L’aborto non libera, uccide il bambino e la mamma; genera uno stato di malessere e un alone mortifero che si trasmette anche alle persone che sono accanto inconsapevoli. La legge sull’aborto non tutela le donne; le lascia libere di farsi del male. Oggi a distanza di anni, tanta sofferenza ha trovato un po’ di pace, anche se le prove della vita ci sono sempre, come per tutti. Dio Padre misericordioso nella sua grande bontà ha saputo guardare il mio cuore, senza abbandonarmi, e ha voluto donarmi la grazia di una famiglia e due meravigliosi figli. Il mio pensiero va a tante persone "normali" come me, che nella loro normalità sono capaci di compiere un gesto così; quante ragazze, donne, capaci di farsi del male. La mia storia, forse, racconta che il dramma dell’aborto volontario non riguarda soltanto situazioni estreme o di emarginazione. C’è chi rifiuta la vita perché non riesce ad accogliere e condividere la propria. A fidarsi della vita. Intorno a noi c’è tanta solitudine e disperazione: la mancanza di dialogo, amore, benevolenza genera anime fragili, persone infelici, comunità infelici, un mondo infelice. Ci sono tante persone di buona volontà, genitori, educatori, sacerdoti e suore che sono un esempio per tutti noi, che forse non vedono le nuove povertà di cui si nutre il male. Forse ciascuno di noi può vedere o aiutare a vedere nello sguardo di chi gli è vicino una richiesta di aiuto e semplicemente può provare a tendere la mano e aiutare la vita. La vita di un bambino prima di tutto. Aiutare una mamma a non abortire e aiutare una mamma cha ha abortito migliorano il nostro cuore e il cuore del mondo.
una mamma, Alzano Lombardo (Bg)



domenica 11 marzo 2012

Rabbì, Maestro è bello per noi essere qui...



                                                                                       Dal Vangelo secondo Marco (Mc 9,2-10 ) 

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
 Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.


Gesù fa una pausa nel suo peregrinare, vedere tanta gente, operare prodigi e prima di questa pausa aveva parlato ai suoi discepoli della sua prossima morte.
Evidentemente i suoi non capivano il perché della morte, nemmeno le condizioni che poneva per seguirlo, come non capiranno dopo questo episodio cosa volesse dire Gesù con le parole “risorto dai morti”. Tra di loro si era creata una situazione di incertezza, forse di turbamento e perplessità sulla identità messianica di Gesù.
Dunque Gesù si permette una pausa, conduce con se verso “un alto monte” Pietro, Giacomo e Giovanni. Sul monte avviene qualcosa di straordinario,Gesù fu trasfigurato davanti a loro in una bellezza e candore mai viste prima; E' come se Gesù venisse per un istante "spogliato" dall'abito della sua umanità per essere rivestito dall'abito della Divinità. Gesù appare nello splendore e nella Bellezza del suo essere Dio.
 Assieme a Gesù i tre discepoli vedono Elia e Mosè che conversavano con Gesù: era bello lassù e Pietro non sapendo cosa dire o dallo stupore chiede  di fare tre tende e rimanere in quel luogo. Una nube li avvolge e una voce, la voce del Padre annuncia la figliolanza divina di Gesù e invita all’ascolto delle sue parole.
Subito dopo aver sentito la voce misteriosa tutto torna nomale con la sola presenza di Gesù e i suoi tre discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo, che cominciano a scendere dal monte.

La trasfigurazione di Gesù è stato un contentino per i suoi tre discepoli? Un segno particolare per mostrare loro chi veramente era? Mostrare loro la sua gloria? Rinfrancarli dopo gli ultimi avvenimenti o discorsi di Gesù?
Forse tutto questo…
I tre apostoli sono rimasti a fissare la visione ed hanno notato la bellezza del prodigio: capiranno dopo la sua risurrezione e la venuta della Spirito che nella persona di Gesù c'è un'altra vita, c'è un'altra natura oltre quella umana, la natura divina. Gesù non era quel messia che si aspettavano ma molto, molto di più.

Se questo fatto è stato riportato nei vangeli è perché è rimasto impresso nella mente  dei tre discepoli ed è stato tramandato a memoria ed esempio di tutta la cristianità  nei secoli. Memoria come segno divino che trasforma le persone, emoziona gli animi, incoraggia ad andare avanti per il cammino tracciato da Gesù, anche passando attraverso una porta stretta.

Pietro ci è di esempio: il suo entusiasmo forse non somiglia anche al nostro entusiasmo in alcune occasioni particolari della nostra vita nel rapporto di fede con Dio? Non abbiamo visto Gesù trasfigurato come Pietro con i nostri occhi, ma l’abbiamo sentito vivamente dentro di noi, gustato nella serenità della nostra preghiera, nella gioia di momenti sacramentali, forse anche in incontri con i fratelli sperimentando com’è bello stare insieme…
Ma come Pietro ci è capitato anche di perdere quell’entusiasmo, di non capire più , di non seguire più quella strada che ci sembrava buona, di non riconoscere Gesù o addirittura dimenticarlo…siamo sati incostanti, sfiduciati dinanzi ai problemi della sofferenza e del dolore o attratti dalla bellezza e lusinghe della vita del mondo…

Pietro tornerà in sé dopo la Pentecoste con la venuta dello Spirito Santo. Da allora non rinnegherà più il suo Maestro fino ad andare incontro alla morte per causa sua.
Forse a noi non toccherà di  morire come Pietro per Gesù, ma a noi toccherà come Pietro dopo la Pentecoste farci possedere e guidare completamente dallo Spirito Santo, abbracciando l’amore che continuamente ci viene offerto: l’amore di un Padre che ama, sa attendere disposto ad abbracciarci in qualsiasi momento.
Farci possedere e guidare dallo Spirito Santo, essere investiti, come Pietro dallo Spirito santo capire di essere da Lui investiti fino a capire di esserlo veramente in un rapporto di dialogo con Lui e di attesa di risposte-

Per capire quando si è investiti dallo Spirito Santo, dovremmo capire la Santissima Trinità, questo grande mistero che occupa tutto l’uomo fin dalla sua creazione.
Ma, se seguiamo le parole di Gesù nei vangeli vediamo che lo Spirito Santo è stato promesso e poi inviato da Gesù assieme al Padre, per assistere gli apostoli, ricordare e far capire loro quanto Gesù ha annunciato durante la sua permanenza sulla terra.
L’esempio di Pietro è un esempio chiaro del suo comportamento e anche del nostro.

Lo Spirito Santo lo riceviamo per mezzo del battesimo e una conferma nella Cresima. Ci è donato gratis come la fede. Come la fede va curata altrimenti muore, così anche il dono dello Spirito Santo se vogliamo essere investiti dall’ amore di Dio.
Lo Spirito non è  l’amore ricambiato tra Il Padre e il Figlio? Ed è proprio questo amore che ci conduce verso la pienezza della nostra fede.

Lo Spirito Santo non lo vediamo, come non vediamo il Padre, come non vediamo Gesù, eppure preghiamo il PADRE, preghiamo Gesù: lo Spirito Santo merita le stesse attenzioni e anche una in più, perché è Lui che conduce la Chiesa tutta verso il Regno dei cieli, perché così ha voluto Dio Padre e Gesù suo Figlio fino alla fine del mondo.
Lo Spirito Santo, se noi lo invochiamo, gli parliamo delle nostre necessità, se gli chiediamo l’aiuto necessario per la nostra vita proiettata verso la santità e verso il nostro prossimo, si farà sentire. Come ci capita di sentire e ringraziare  il Padre, di sentire Gesù vicini a noi quando riceviamo il perdono, quando celebriamo l’eucarestia, quando amiamo…arriveremo a sentire e ringraziare lo Spirito Santo per i suoi consigli e i suoi doni…

Provare per credere...


    
    

giovedì 8 marzo 2012

Solo quando avremo taciuto noi...

di Don Tonino Bello




Solo quando avremo taciuto noi,
 
Dio potrà parlare.
 
Comunicherà a noi sulle sabbie del deserto.
 
Nel silenzio maturano le grandi cose della vita:
la conversione, l'amore, il sacrificio.
 
Quando il sole si eclissa pure per noi,
ed il Cielo non risponde al nostro grido,
e la terra rimbomba cava sotto i passi,
e la paura dell'abbandono rischia di farci disperare,
restaci accanto.
 
In quel momento, rompi pure il silenzio:
per dirci parole d'amore!
 
E sentiremo i brividi della Pasqua.
 

giovedì 1 marzo 2012

Pasqua, festa dei macigni di don Tonino Bello







Per noi cristiani questi giorni che precedono la Pasqua dovrebbero essere giorni di riflessione, di esame di coscienza , di buoni propositi, di preghiera. Ma forse per la maggior parte di noi saranno giorni come gli altri perché oppressi  da un mondo di pensieri, preoccupazioni, interesso che ci distolgono dal nostro essere religioni, facendoci vive nella mediocrità.
Ci siano di stimolo questi due articoli di Monsignor Tonino Bello o come lo chiamavano e lo chiamiamo anche adesso don Tonino Bello:


È Pasqua! È Pasqua! Festa dei macigni rotolati!

Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. È il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato. Siamo tombe allineate. Ognuna col suo sigillo di morte. Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi. E se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di Cristo. Pasqua è la festa dei macigni rotolati. È la festa del terremoto. Il Vangelo ci dice che i due accadimenti supremi della storia della salvezza, morte e resurrezione di Gesù, furono entrambi caratterizzati dal terremoto (Mt 27, 51; 28, 2). Pasqua, dunque, non è la festa del ristagno.
.
(Tonino Bello) .


Gli auguri di don Tonino: Pasqua 1986


Cari amici,
come vorrei che il mio augurio, invece che giungervi con le formule consumate del vocabolario di circostanza, vi arrivasse con una stretta di mano, con uno sguardo profondo, con un sorriso senza parole!
Come vorrei togliervi dall’anima, quasi dall’imboccatura di un sepolcro, il macigno che ostruisce la vostra libertà, che non dà spiragli alla vostra letizia, che blocca la vostra pace!
Posso dirvi però una parola. Sillabandola con lentezza per farvi capire di quanto amore intendo caricarla: “coraggio”!
La Risurrezione di Gesù Cristo, nostro indistruttibile amore, è il paradigma dei nostri destini. La Risurrezione. Non la distruzione. Non la catastrofe. Non l’olocausto planetario. Non la fine. Non il precipitare nel nulla.
Coraggio, fratelli che siete avviliti, stanchi, sottomessi ai potenti che abusano di voi.
Coraggio, disoccupati.
Coraggio, giovani senza prospettive, amici che la vita ha costretto ad accorciare sogni a lungo cullati.
Coraggio, gente solitaria, turba dolente e senza volto.
Coraggio, fratelli che il peccato ha intristito, che la debolezza ha infangato, che la povertà morale ha avvilito.
Il Signore è Risorto proprio per dirvi che, di fronte a chi decide di “amare”, non c’è morte che tenga, non c’è tomba che chiuda, non c’è macigno sepolcrale che non rotoli via.
Auguri. La luce e la speranza allarghino le feritoie della vostra prigione.
Vostro don Tonino, vescovo