martedì 19 luglio 2011

L'essere sessuale: umano e cristiano



Amore vuol dire condividere tutto nella gioia e nel dolore




Lo spauracchio del sesso oggi non esiste più, anzi oggi assistiamo ( sarà per reazione al passato!?) ad una esaltazione del sesso che molti, sarebbe da dire moltissimi, confondono con l’amore. In questo articolo nulla di definito, ma ci aiuterà a capirne qualcosa di più, forse una conferma al nostro vivere cristiano, forse un chiarimento sulle tante voci su questo argomento.

 
170 - L’ESSERE SESSUALE: UOMO E CRISTIANO   

di Michael Schrom


«Invece di esaltare l’amore, sarebbe meglio occuparsi seriamente della sessualità». Questa frase del filosofo francese Paul Ricoeur colpisce nel segno, richiamando l’attenzione su ciò che molti credenti pensano a proposito delle affermazioni della chiesa e del suo magistero su tali questioni. In effetti ci sono dichiarazioni che descrivono l’essenza dell’amore in modo poeticamente meraviglioso, ma per quanto riguarda la sessualità prevale l’impressione che, nelle esternazioni dell’autorità religiosa, in definitiva si tratti soltanto di sottolineare, mediante un severo sistema di regole, ciò che è permesso e, soprattutto, ciò che è proibito.

Poco tempo dopo la sua elezione a papa, Benedetto XVI ha espresso l’augurio che si possa giudicare la dottrina su sessualità, amore, rapporti tra partner e matrimonio non a partire dai suoi divieti negativi, bensì dal suo modello ideale positivo, ovvero dalla creazione, voluta da Dio, dell’essere umano quale essere sessuato, come uomo e donna. Tuttavia, su quali conclusioni trarne il papa è rimasto nel vago anche nell’enciclica, accolta come sensazionale, Deus caritas est [Dio è Amore].
Molto concreti sono invece i passi corrispettivi nel cosiddetto Catechismo universale, che sono formulati nello stile di una astratta morale dei comandamenti e dei divieti. In quel testo si dice, tra le altre cose, che ogni forma di sessualità, che non abbia luogo all’interno del matrimonio, è «fornicazione» e «gravemente contraria alla stessa sessualità umana» (n. 2353). L’autogodimento è un «atto gravemente disordinato», perché «qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale al di fuori dei rapporti coniugali normali contraddice essenzialmente la sua finalità» (n. 2352). E anche all’interno del matrimonio «il piacere sessuale è disordinato quando è ricercato per se stesso, al di fuori delle finalità di procreazione e di unione» (n. 2351). 




In tal modo il catechismo della chiesa cattolica riprende l’enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI, apparsa nel 1968, la quale ha suscitato particolare scalpore proprio per il fatto che proibiva la cosiddetta contraccezione artificiale. Dato che, da quel tempo in poi, da Roma non è venuta alcuna presa di posizione magisteriale che esprima, a questo riguardo, una visione correttiva o che introduca delle distinzioni, si pongono tre interrogativi:
Primo: dal punto di vista cristiano è già detto tutto l’essenziale?
Secondo: la morale sessuale della chiesa è all’altezza dei tempi e in grado di mantenere il contatto con la nostra attuale cultura?
Terzo: ci sono, in generale, dei nuovi approcci teologici che vanno oltre la concezione classica che si richiama a un diritto naturale?




Domande da tempo liquidate

Nella rivista dei Domenicani, Neue Ordnung (Dicembre 2009), il teologo morale di Magonza Johannes Reiter ha sottolineato ancora una volta l’elevato ideale della dottrina sessuale classica con i suoi tre pilastri: totalità, definitività, fecondità, indicandoli come segnavia e attuali. Nessuno contesterà seriamente che questi attributi siano o, rispettivamente, possano e debbano essere le caratteristiche di una relazione sessuale riuscita. Ma si può intendere in questa esclusività e assolutezza un fenomeno tanto complesso come la sessualità?

Che ne è, ad esempio, di quelle coppie che non possono avere figli oppure che sono troppo anziane per generare? Non devono forse vivere la loro sessualità? E che ne è di quelle che non vogliono più avere (altri) figli, perché forse i partner sono, finanziariamente e psichicamente, arrivati al limite? In definitiva: nella chiesa si deve necessariamente continuare a litigare in modo accanito sulla liceità dei mezzi contraccettivi, quando nel dibattito pubblico si tratta da tempo di tutt’altri problemi, ad esempio della violenza sessuale fisica e psichica, della incomunicabilità nella coppia, di bramosia, di depravazione sessuale e pornografia?

«Nella chiesa si spreca molta energia e un potenziale intellettuale infinito su questioni… che la stragrande maggioranza dei fedeli ha di per sé da tempo liquidato», lamenta il teologo morale di Monaco, Konrad Hilpert, in Herder-Korrespondenz (Aprile), che è molto critico anche con la propria categoria. La teologia morale tradizionale, salvo occasionali valutazioni critiche, avrebbe fatto troppo poco per rendere giustizia all’essere umano quale essere sessuale.
La teologia morale recente, a sua volta, rimarrebbe ampiamente muta, perché tutto il campo delle relazioni e della prassi sessuale è «iperregolato» dal magistero con divieti e «la discussione dei problemi pressanti che hanno a che fare con la sessualità e delle soluzioni possibili non è realmente auspicata e talvolta è rischiosa». Un confronto autocritico con l’etica sessuale teologica sarebbe urgentemente necessario per superare la fissazione su aspetti secondari e per riflettere, di fronte alla realtà, sull’essenziale. 





L’80% dei ragazzi di 16/17 anni hanno già avuto esperienze sessuali. Il numero di coloro che, alla ‘prima esperienza sessuale’, non hanno ancora 15 anni sale rapidamente. La maggior parte di queste coppie di teenager non pensa di sposare il partner attuale. Franz-Josef Bode, di Osnabrück, finora «vescovo della gioventù» e nuovo direttore della Commissione pastorale della Conferenza episcopale tedesca, ha ammesso di recente che le persone si trovano ad affrontare oggi le questioni di coppia in condizioni totalmente diverse rispetto al passato. Nella sua giovinezza era normale che tra maturità sessuale e nozze passassero dai sei ai sette anni. Oggi l’età del matrimonio – sempre che ci si sposi – si è chiaramente spostata a più tardi, dopo i trent’anni, quando non oltre i quarant’anni. Tra la pubertà e il matrimonio passano quindici anni e più. Come possono e devono i giovani vivere in questo tempo forme di relazione di coppia consapevolmente responsabili anche dal punto di vista sessuale? «Il vero amore sa aspettare» – anche per 15 anni?



Piacere al posto dell’amore?

Fino agli anni Sessanta in molti luoghi la sessualità era ancora un tabù. Da allora il clima sociale è completamente cambiato, tramutandosi nel contrario. La sessualizzazione dello spazio pubblico è immensa, incominciando dalla pubblicità fino a riviste, film e letteratura. I libri di maggior successo degli ultimi anni, Zone umide di Charlotte Roche e Axolotl Roadkill di Helene Hegemann, si divertono addirittura con descrizioni dettagliate, lunghe diverse pagine, esplicitamente pornografiche. Con Internet, a sua volta, sono cadute le barriere. Videoclip pornografici vengono oggi scambiati tra gli adolescenti, durante la pausa in cortile, da cellulare a cellulare. Non pochi pedagogisti e sociologi parlano già di una «tragedia sessuale» per quanto riguarda una generazione che sta crescendo, nella quale la sessualità rappresenta per molti ben più un rapido piacere e una tecnica che un mistero dell’amore. Spaventano il linguaggio a volte freddo, la mancanza di rispetto e la depravazione. Di fronte a ciò il pedagogista della religione Stephan Leimgruber, di Monaco, sulla rivista Stimmen der Zeit (Gennaio), si chiedeva: «Possono la chiesa, l’attività ecclesiale con la gioventù e la pedagogia religiosa permettersi di piantare in asso dei giovani?» Ci si chiede se la chiesa prenda davvero in considerazione i problemi degli adolescenti e dei giovani, se nel lavoro con la gioventù si parli di questi problemi o se, invece, non si abbia proprio più il coraggio di affrontare questi temi. Detto in modo ancor più drastico: non si cacciano gli adolescenti e i giovani, forse in maniera ancora più decisa, in una situazione di disorientamento quando si proclama loro soltanto un ideale che cala dall’alto come un messaggio proveniente da un altro pianeta, ma che non ha più nulla a che vedere con la loro vita reale?


Moderna morale della negoziazione

La chiesa ufficiale tace, come se il cristianesimo non abbia alcun orientamento da offrire alla gioventù nell’ambito dell’impegno esistenziale. Leimgruber osserva: «Il fatto che in queste questioni non ci sono più lettere pastorali delle autorità religiose né dichiarazioni della Commissione per la gioventù attira l’attenzione quanto la constatazione di teologi morali che qui si tratta di un campo minato, entrare nel quale non può essere consigliato a dei giovani teologi». Tuttavia, proprio qui inizia il grande estraniamento tra giovani e comunità di fede, che spesso conduce alla rottura definitiva.

Ma la sessualità dei giovani è soltanto un caso nel quale la frattura tra morale sessuale ecclesiastica e la realtà è particolarmente grande. Le disposizioni dell’enciclica Humanae vitae non vengono seguite in alcuni punti centrali dalla maggior parte dei cattolici, perché essi non possono accettare il principio che vi sta alla base, secondo il quale ogni atto sessuale deve essere aperto ad una procreazione. Cinquant’anni dopo la liberalizzazione della ‘pillola’ per la contraccezione ormonale, il divieto ecclesiastico di una pianificazione familiare attraverso mezzi chimici o meccanici fa l’effetto di un intervento arrogante nella sfera intima dell’individuo. In nessun altro ambito la chiesa ha perduto così tanto in fiducia e seguaci. Tanto più anacronistico appare in questo contesto l’incessante insistere di alcuni vescovi, perché la Conferenza episcopale tedesca ritratti la «dichiarazione di Königstein» del 1968, cioè proprio quel documento nel quale i vescovi avevano sottolineato l’importanza della decisione di coscienza dei coniugi in questioni di contraccezione.





Lo studioso di sessualità Gunter Schmidt osserva che in ampie parti della popolazione - anche fra cristiani - negli ultimi decenni si è formata una «morale della negoziazione». Questo significa: «Mentre la vecchia morale giudicava gli atti sessuali - masturbazione, sesso al di fuori del matrimonio, omosessualità ecc. – in modo ampiamente indipendente dal contesto, oggi non importa più che cosa due partner fanno fra di loro, ma come lo si fa. Se ciò avvenga in modo eterosessuale, bisessuale o omosessuale, oralmente, teneramente, rozzamente, onestamente o in modo raffinato, in modo normale o perverso… dal punto di vista morale è irrilevante. L’importante è che venga fatto con il consenso di entrambi». Schmidt vede in ciò una demistificazione e una sdrammatizzazione della sessualità. «Sembra che all’inizio del XXI secolo la sessualità si sia radicalmente sottratta a vincoli – sganciata dal cattolicesimo e dal modello patriarcale».

Il fatto che l’autorità magisteriale della chiesa abbia gravissime difficoltà con una tale morale autonoma della negoziazione, non sorprende. Per un millennio e mezzo il cristianesimo ha considerato la sessualità soprattutto sotto il segno della «purità cultuale», così pensa lo storico della chiesa Hubertus Lutterbach, di Essen, in Lebendige Seelsorge (fasc. 2/2009). Sebbene Gesù di Nazaret avesse superato le idee di purità cultuale dell’Antico Testamento e, al loro posto, avesse messo al centro la «purezza del cuore» (cfr. Mt 7, 14-15), nella giovane chiesa l’idea di una «macchia» divenne relativamente presto la «categoria decisiva per la comprensione della sessualità». Ciò condusse al fatto che sessualità e piacere non furono valutati nel contesto di coloro che si amano, ma - da ciò slegati e in certo qual modo astratto - come fenomeno sommamente ambivalente e minaccioso, che in linea di principio poteva compromettere l’accesso al sacro, a Dio.

In ogni caso nel matrimonio, dicono molti teologi, la pericolosa potenza della sessualità poteva in una certa misura essere «tenuta a freno». Si spiega così anche la svalutazione, durata secoli, del matrimonio rispetto alla forma di vita celibataria. «Un male necessario per la riproduzione dell’umanità. Peccato, soltanto, che genera piacere», così il teologo di Monaco Johannes Gründel, era solito concludere in modo amaro-scherzoso la sua lezione, quando riferiva le idee di Agostino sulla sessualità, e con ciò metteva in evidenza la grande frattura tra teoria teologica e vita pratica.





Sebbene il concilio Vaticano II avesse superato la riduzione biologistica della dottrina dei fini del matrimonio alla procreazione della prole e avesse preso in considerazione l’amore, il reciproco sostegno e il rapporto di coppia, già subito dopo il concilio i pesi si sono di nuovo spostati verso una ‘bio-teologia’: questa è la critica del teologo olandese Erik Borgman nella rivista Concilium (1/2008).


La Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo definiva i coniugi «cooperatori dell’amore di Dio creatore e, per così dire, come suoi interpreti» (GS 50). Papa Giovanni Paolo II, invece, nella sua Esortazione apostolica Familiaris consortio, del 1981, sottolineò che in definitiva «la capacità procreativa iscritta nella sessualità umana è, nella sua più profonda verità, una cooperazione con la potenza creativa di Dio». L’atto procreativo veniva così definito di nuovo come centro della sessualità, caricato di senso religioso e posto troppo in alto. Borgman lo spiegava così: «In quest’ottica non è in primo luogo dando responsabilmente forma alla propria sessualità secondo il volere di Dio verso il mondo per come è rivelato nel messaggio e nella vita, morte e risurrezione di Gesù, Unto del Signore, ma sottomettendosi ai meccanismi interni indisturbati della fertilità umana che i partner sessuali santificano la propria vita». Se infatti si lega così fortemente la presenza di Dio ai processi biologici della riproduzione, del concepimento e della gravidanza, ogni intervento o mutazione di ciò che qui viene ritenuto ‘naturale’ potrebbe essere considerato solo come «una rottura del legame tra l’intimità sessuale e il dono della vita che è in se stesso sacro».

Borgman fa riflettere sul fatto che la teologia, ad esempio nella medicina, non interpreta l’intervento dell’uomo come contrario alla teologia della creazione e al diritto naturale. Lì, piuttosto, si valorizza l’azione di guida da parte dell’uomo come attività culturale. Dal punto di vista teologico ciò viene motivato col fatto «che la natura… non è il mondo creato da Dio, ma è il processo dal quale quel mondo trae origine». L’intervento umano responsabile nella natura è di conseguenza voluto da Dio. Soltanto nella sessualità il supremo magistero della chiesa si rifiuta di accogliere questa prospettiva.




Carne: il cardine della salvezza

La questione teologico-morale ed etica decisiva, però, è se «una cultura… è al servizio di Dio quale donatore di vita». Può essa contribuire ad una visione nella quale questo Dio è il futuro di tutti gli uomini, che colma in modo sovrabbondante il loro desiderio e il loro tendere naturale verso la felicità? E’ attenta questa cultura al divieto della violenza? Rispetta la dignità della persona? Si oppone a tutte le forme di sfruttamento? Da queste domande, così sostiene Borgman, dovrebbe in primo luogo lasciarsi guidare la morale sessuale cristiana. A tal riguardo essa dovrebbe però liberarsi dai residui di un pensiero di purità cultuale, proprio come da riduzioni che la vincolano al diritto naturale. Ma la paura di ciò sembra essere grande. Si preferisce mettere in conto il cliché della «chiesa ostile al corpo» e rischiare di non essere affatto più ascoltati. Ciò è, come afferma il prete e pubblicista Gotthard Fuchs, «diserzione e tradimento del Vangelo». Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, «la carne è il cardine della salvezza» – un principio già formulato dallo scrittore ecclesiastico e teologo Tertulliano (150-230 d.C.).

Negli ultimi tempi vanno moltiplicandosi voci autocritiche che finalmente chiedono una discussione aperta. Ad esempio, sul Tiroler Sonntag il vescovo di Innsbruck Manfred Scheuer ha affermato: «Io credo che c’è un nesso tra ciò che ora si rimprovera alla chiesa e una offesa tramite la morale sessuale ecclesiastica. Offesa in quanto con troppo poca sensibilità si parla di come si può andare avanti dopo crisi e fallimenti… nel rapporto con la sessualità la chiesa ha spesso visto solo l’occasione di peccato. Non è stato un bene, perché è stata una esagerazione e perché non è stata comunicata la bellezza della sessualità». Ora si dovrebbe parlare, così sostiene Scheuer, dei «blocchi» e dei «killer della vitalità» nella chiesa, «dei rapporti di potere, di strutture, di sessualità, del celibato e anche della burocrazia».

Un nuovo progetto di morale sessuale cristiana ha bisogno anche di altri ideali spirituali. «La venerazione di Maria come puerpera asessuata, certe idealizzazioni di purezza e castità (perché, rispetto ad una ragazza, una madre di famiglia dovrebbe avere una macchia?), la esemplarità di alcuni santi che incarnano questo ideale o a proposito dei quali, nella tradizione, si è unilateralmente insistito sul distanziarsi da ciò che aveva a che vedere con il sesso» – tutto questo deve costituire il banco di prova critico, chiede Konrad Hilpert.




Soprattutto, però, un nuovo progetto ha bisogno «come base di una morale del corpo, che affronti in modo critico il concetto di ‘natura’ e rispetti, promuova e coltivi il ‘senso proprio’ del corpo», scrive Regina Ammicht-Quinn nel volume collettivo Eros-Körper-Christentum [Eros-Corpo-Cristianesimo] (Herder 2009). La teologa e studiosa di etica non critica i principi di fondo della morale sessuale cristiana, ma esige che questi non vengano più intesi come leggi fondate sul diritto naturale. In tal senso la comprensione cristiana dell’essere umano come essere sessuale potrebbe riguadagnare l’amore del prossimo. Il giudizio della chiesa sulla sessualità diverrebbe così più umile, poiché rinuncerebbe alla pretesa di definire un sistema di regole completo e complesso, e di valutare comportamenti che se ne distaccano, senza considerare le circostanze e i contesti, semplicemente come in sé immorali o come peccati. Allo stesso tempo le istanze cristiane fondamentali potrebbero essere rese di nuovo più chiare. La fecondità, così sostiene Regina Ammicht Quinn, dovrebbe essere intesa non solo secondo la lettera, ma anche in senso figurato: là dove l’energia di una relazione di amore si dilata oltre se stessi e viene resa feconda per il regno di Dio. Totalità significa per la teologa che sessualità e piacere non vengono tabuizzati, non subiscono separazione o riduzione, e non vengono neppure – consciamente o inconsciamente – segregati in una vita privata incontrollata o vergognosa. Definitività, infine, significherebbe che la sessualità non viene vissuta in modo occasionale e «per prova», fino a che si presenta una occasione migliore, anche se si dovrebbe riflettere sul fatto che «definitività non è una categoria disponibile all’uomo».

Questa prospettiva, che sottolinea in maniera più forte l’aspetto processuale e carico di desiderio dell’uomo per il rapporto di coppia vero, fedele e riuscito, trasformerebbe il modo di vedere della chiesa su molte «questioni scottanti», tra le quali non si deve dimenticare che fecondità e mettere al mondo dei figli è oggi di nuovo un grande tema pure per le coppie giovani. Infine, come cristiani, dovremo restare fedeli all’idea di fondo della nostra religione, che è l’accoglienza incondizionata dell’uomo da parte di Dio, anche e proprio nella sua sessualità.

Testo riportato Da forum teologico, Editrice Queriniana, giornale di teologia N.170, 25/06/2010



















Il figliol prodigo

http://youtu.be/_bwP-VLgXP0

venerdì 15 luglio 2011

Inattesa avventura di vita e di fede - testimonianza

Da Bollettino salesiano luglio 2011
CHIARA BERTOGLIO

La figlia numero cinque

Un’inattesa avventura di vita e di fede

Una bella, grande famiglia: quattro bellissime bimbe, nate dal 1999 in poi, un’altra in arrivo. Marco oggi ha trentanove anni, da quattordici è sposato con Claudia. È un educatore professionale; da dieci anni lavora presso la Caritas della sua città e soprattutto nel carcere.
In passato si è occupato di adulti con disagio, senza fissa dimora, unità di strada per le vittime della tratta, malati terminali di HIV.
Eppure il giorno della nascita di Sara Benedetta, la figlia numero cinque, è stato diverso.
«I medici mi avevano invitato a seguirli: dovevano parlarmi. Dai toni e dalle espressioni dei medici si capiva che non potevo aspettarmi buone notizie, non mi rendevo conto che in quegli istanti iniziava un’inattesa avventura di vita e di fede».
«Non sono uno che sente le “voci”, né ho apparizioni mistiche. Eppure, mentre la pediatra mi diceva che la mia piccola Sara ha la sindrome di Down, è stato come se alle sue parole si sovrapponessero nel mio cuore quelle di Qualcuno che mi diceva: “Caro Marco, qui c’è un grande regalo per voi”».
E alla “voce” di Dio, Marco risponde subito: “Beh, Signore, se ci doni una bambina così vuol dire che, almeno un po’, di noi ti fidi”. Mentre abbracciavo Sara per la prima volta, sono stato io a sentirmi abbracciato come non mai».
Non è tutto rose e fiori, ovviamente. «Questi cuccioli speciali», come li definisce Marco, «sono anche straordinariamente delicati». Sara ha bisogno delle cure della terapia intensiva, per una malformazione cardiaca congenita; viene intubata e dovrà essere operata al massimo entro il sesto mese di vita.
«Il vero dramma», dice Marco, «non è accogliere un figlio Down, ma vivere la malattia di un figlio».
Paradossalmente, però, è Sara che dà una mano ai suoi cari, nonostante sia piccolissima. Ha una gran voglia di vivere e di guarire e, oltretutto, come ricorda Marco sorridendo, «ha sempre potuto usufruire della miglior terapia: coccole delle sorelle, calore di nonni e zii, vicinanza e preghiera degli amici e della comunità, che, con il loro amore, hanno saputo costruire e rafforzare la speranza».
«Sapevo che, in quel reparto, di fronte alla morte ed all’immensa sofferenza degli innocenti, la mia fede sarebbe andata in crisi. Sapevo che avrei litigato con Dio, ma temevo soprattutto di sperimentarne l’assenza».
Marco condivide con noi alcune righe che aveva scritto proprio in quei giorni, nella rianimazione dell’ospedale, passati nell’impotenza davanti alla piccola Sara, immobile, intubata, “crocifissa”.
«Io, in questo reparto, ho capito che dopo anni di preghiera, studio, meditazione biblica e dotte letture, del Dio di Gesù Cristo non ho proprio capito nulla. Molte volte, specialmente durante le catechesi quaresimali, avevo commentato ironicamente il comportamento degli apostoli di fronte alla passione di Gesù. Ma come? Sono stati fianco a fianco con il Cristo per tre anni e non avevano capito che tipo di Messia Dio aveva inviato? Sorridevo davanti a questi discepoli preoccupati di fare carriera, pronti a morire per un Messia liberatore, ma traditori di quello fattosi agnello condotto al macello. Perdonatemi, fratelli apostoli: se voi non avevate compreso Gesù, io non ho capito né lui, né voi. In questa
rianimazione ho fatto pasqua. Il problema non è che si sente Dio lontano o peggio assente: Dio c’è, eccome! Lo si sente ben presente... Il problema è che sperimenti sulla tua pelle cosa significa che le sue vie non sono le nostre. Un Dio così mi ha fatto paura, e anch’io sono scappato, esattamente come gli apostoli nel Getsemani. Per me non c’è stato un gallo che ha cantato, ma l’allarme di un monitor che è scattato; non c’era nessuno ad accusarmi di nulla, ma come Pietro nel cortile della casa del sommo sacerdote, pensando a Gesù, ho potuto solo dire: Io non lo conosco!».
«Quando Sara è entrata in casa per la prima volta, Giona, il cane di famiglia, dopo averla brevemente annusata, le si è accucciato accanto, e per tutto il giorno non si è più mosso. Sembrava volerci dire che certi bambini devono essere protetti e tutelati, forse più di altri. E che lui la sua parte l’avrebbe fatta fedelmente e fino in fondo. I cani certe cose le sanno... e noi?»
«Un bimbo Down, ordinariamente, non lo si cerca e non lo si augura a nessuno», afferma senza mezzi termini. «Sara in pochi minuti mi ha spiegato che non serve né essere pronti, né avere qualche vocazione speciale, basta essere normali genitori che accolgono un bimbo.
Oggi con Sara la nostra famiglia è più ricca e felice e in casa non è entrato un problema, ma un dono, esattamente come quando sono nate Chiara, Giulia, Francesca e Lucia».
«Ormai, quasi tutti, durante una gravidanza, consigliati dai ginecologi, optano per l’amniocentesi per avere una diagnosi prenatale della trisomia 21. E presto basterà un esame del sangue. Con qualsiasi metodo la si ottenga, lo scopo della diagnosi, di solito, è uno solo: non far nascere il bambino, proprio perché è Down».
«Con Sara, in casa, è entrato un sorriso in servizio permanente effettivo: lo so che si crede che questi bambini sopportino dei limiti che li penalizzano, io mi convinco invece sempre di più che viceversa custodiscono delle capacità di gioia e conoscano vie di felicità che in molti ci siamo persi per strada e che loro possono insegnarci a recuperare».
«Ringrazio Dio perché con la nascita di Sara il FIL (Felicità Interna Lorda) della famiglia si è impennato. Perché per lei non conta di chi è il compleanno: l’importante è essere tanti, insieme, a far festa. Perché le patatine fritte in tavola sono motivo sufficiente per esultare, come per un goal dell’Italia ai mondiali. Perché i gatti con lei fanno le fusa, anche se li accarezza contropelo. Perché se resto troppo tempo al computer, con precisione scientifica sa pigiare quella sequenza di tasti che impallano il sistema e mi ricorda che c’è di meglio da fare. Perché sembra sapere sempre dove abita la felicità, e se mi perdo mi ci riporta. Perché, come tutti i bambini, si arrabbia, piange, fa i capricci, tiene il muso e in un attimo passa tutto. Perché se ho bisogno di uno di quegli abbracci che ti scaldano l’anima, lei me ne garantisce almeno tre (rinnovabili). Perché ha un sorriso che potrei brevettare come terapia antidepressiva, ma non si può: è gratis ed è per tutti! Perché come ogni bimbo che nasce, Sara è una scommessa di Dio in favore dell’uomo». 



Marco conclude con un sorriso: «Quando, durante la gravidanza, abbiamo affrontato il terribile (provate a mettere d’accordo quattro sorelle!) problema del nome con cui battezzare la nuova arrivata, interminabili discussioni e votazioni hanno preceduto la scelta di Sara, ma sul secondo nome siamo da subito stati tutti d’accordo: senza saperlo ci eravamo già detti che quella creatura sarebbe stata per noi e per sempre, Benedetta»
 

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martedì 12 luglio 2011

Ti voglio per amico


Ti voglio per amico
Autore: Padre Zezhino
 
Ti voglio per amico
ed è importante per me che tu lo sappia.
Però, anche se tu non lo sapessi e non ti interessasse saperlo,
ti vorrei bene lo stesso!

Non ti voglio bene per me, ti voglio bene per te!
Non sei una persona che voglio possedere,
sei una persona che voglio vedere sbocciare ogni giorno di più.

Se avrai tempo per me, sarò felice di stare insieme a te.
Se sarai occupato e non mi vorrai accanto, cercherò di capire.
Se cercherai il mio tempo, farò in modo di sbrigarmi,
perché immagino che non mi cercheresti senza una ragione:
per me la tua ragione sarà sempre importante.

Se vuoi piangere, ti offro le mie spalle.
Se vuoi urlare contro il mondo ti offro la mia voce,
se vuoi sorridere, ci sarò anch'io a sorridere con te.
Se vuoi pace e silenzio, cercherò di parlare, ma non troppo.
Se per caso cercherai di vedere in me l'unico amico che hai,
cercherò di farti trovare altri amici,
perché non potrei mai darti tutto ciò di cui hai bisogno.
.
Non voglio essere il tuo unico amico,
sembra bello, però non ti fa bene.
Hai bisogno di altri, come io ne ho bisogno.
Se si spegnerà la tua luce, prendi la mia.
Se la tua pace se ne va, ci sarà ancora la mia, prendila pure.
Se la tua fede si farà confusa, credi con me: in due si crede meglio.

Se avrai paura, uniamo le nostre paure,
forse troveremo il coraggio di vivere.
Allora non ti prometto di non deluderti mai!
Sai che sono umano e perciò posso sbagliare.
Non ti prometto di amarti come vuoi essere amato!
Non ti prometto niente di più che cercare di essere vicino a te e
camminare insieme.

Voglio essere il tuo compagno, il tuo amico, il tuo fratello,
senza la presunzione di essere la tua unica forza.
Guardami negli occhi e cerca di immaginarmi come un ponte:
non devi restare in me, devi passare attraverso di me,
perché io sono tuo amico, perché sono tua strada verso l'Infinito,
perché sono il ponte che ti porta all'al di là,
e se non riuscissi a portarti più vicino a Dio,
non sarei stato un vero amico.
Ti voglio per amico.
Pensa a me come a un ponte nel tempo,
dopo di me troverai il vero amico: Dio.

Mi vuoi?

domenica 3 luglio 2011

Due leggende o storie vere?


Tocca a chi legge decidere!!



«Ero andato mendicando di uscio in uscio lungo il sentiero del villaggio, quando, nella lontananza, apparve il Tuo aureo cocchio come un segno meraviglioso; io mi domandai: Chi sarà questo Re di tutti i re?
Crebbero le mie speranze e pensai che i miei giorni tristi sarebbero finiti; stetti ad attendere che l'elemosina mi fosse data senza che la chiedessi, e che le ricchezze venissero sparse ovunque nella polvere.
Il cocchio mi si fermò accanto. Il Tuo sguardo cadde su di me e scendesti con un sorriso. Sentivo che era giunto alfine il momento supremo della mia vita. 

 Ma Tu, ad un tratto, mi stendesti la mano dritta dicendomi:   "Cosa hai da darmi?".
Ah !, qual gesto regale fu quello di stendere la Tua palma per chiedere a un povero!
Confuso ed esitante tirai fuori lentamente dalla mia bisaccia un acino di grano e te lo diedi.
Ma qual non fu la mia sorpresa quando, sul finir del giorno, vuotai per terra la mia bisaccia e trovai nello scarso mucchietto un granellino d'oro!
Piansi amaramente di non aver avuto il cuore di darTi tutto quello che possedevo».                         
Tagore    

   
 

È giorno di mercato e di festa nella piazza davanti all’Abbazia di Cluny.              Jean, un giullare povero, cerca di guadagnarsi qualche soldo con il suo repertorio di giochi e canzoni. La folla lo dileggia e chiede con insistenza che intoni un inno, l’‘Alleluja del vino’. In quel momento esce dall’abbazia il priore, arrabbiato per questo canto scandaloso e rimprovera Jean invitandolo a una vita migliore, forse nel suo convento, dove potrà fare penitenza. Jean lo segue senza esitazione. I monaci trascorrono le loro giornate pregando e lavorando; ognuno di loro onora la Vergine con l’arte in cui eccelle, chi dipingendone e scolpendone le sembianze, chi cantandone le lodi in versi aulici e in musica togata. Jean è afflitto perché non sa cosa dedicare alla Vergine, finché un giorno egli riveste segretamente l’antico costume giullaresco e davanti all’altare saltella giulivo sui ritmi e le melodie di vecchie canzoni erotiche e guerresche. Sorpreso dai monaci scandalizzati, sta per essere fermato, quando improvvisamente avviene il miracolo: la statua della Madonna si anima e benedice Jean, che spira in una dolce estasi. I frati si inginocchiano: «Beati gli umili», recita il priore, «perché vedranno Dio».